Chi nell’Italia centrale non si è svegliato stanotte, stamattina ha avuto un risveglio poco piacevole, con la notizia di un terremoto in Abruzzo e quella dei forti danni che esso ha provocato. Alla notizia e alle prime stime dei danni e del numero delle vittime hanno fatto seguito anche le polemiche sull’annuncio, inascoltato, dato da un ricercatore, circa il fatto che ci sarebbe stato un terremoto molto forte.
Tuttavia, c’è un forte consenso nella comunità scientifica internazionale circa il fatto che i terremoti non possano essere oggetto di previsioni attendibili. Si può sapere che ci saranno, si può sapere dove saranno (ormai le mappe sismiche del pianeta sono dettagliate), ma non si può sapere il giorno e l’ora in cui la scossa avrà luogo. Forse quindi piuttosto che sul mancato allerta alla popolazione (che sarebbe in ogni caso stato piuttosto generico e incerto) si dovrebbe discutere su altre cose: per esempio, sul perché siano crollati tanti edifici.
Che l’Italia centrale sia caratterizzata da un’elevata sismicità non è una novità: ci sono mappe accurate, c’è l’informazione su un grande numero di terremoti “storici” avvenuti negli ultimi duemila anni, c’è un monitoraggio continuo della sismicità. Inoltre, in Italia sono molto diffuse anche le informazioni circa la riduzione del rischio sismico: edilizia antisismica, controllo sugli interventi di modifica dell’edificato antico, forme di organizzazione della società civile, l’educazione, la ridondanza delle infrastrutture essenziali. Si potrebbe pensare che in una situazione di questo genere si agisca per ridurre la vulnerabilità ai terremoti: c’è un pericolo noto e sono note le misure di limitazione del rischio. Invece non è così: sembra che la vulnerabilità del nostro territorio e delle nostre città tenda a rimanere quasi immutata.
E anzi spesso tenda ad aumentare, non soltanto a causa di comportamenti impropri della popolazione (come quelli riguardanti la costruzione di nuovi edifici e gli interventi di costruzione su quelli esistenti, senza rispetto delle norme antisismiche o addirittura con materiali di scarsa qualità), ma anche grazie a politiche pubbliche inefficaci o addirittura dannose: da quelle relative alla gestione della crisi economica (che non tengono conto della possibilità che una popolazione possa essere posta in situazioni di esclusione sociale dall’accumulazione di processi dannosi diversi, e tendono a limitarsi a interventi straordinari su piccoli gruppi di persone o addirittura agli annunci rispetto ad azioni che non sono mai effettivamente attuate) a quelle riguardanti la gestione del territorio e dell’edificato, che in misura sempre maggiore tendono a non tener conto delle caratteristiche e dei rischi esistenti, allargando le aree su cui si costruisce, riducendo le forme di controllo dell’attività edilizia e rinunciando a qualsiasi forma di orientamento o di guida di questa attività.
Di fatto, la vulnerabilità sismica non riguarda infatti soltanto gli edifici, ma riguarda anche le popolazioni e le forme di organizzazione sociale. Essa è infatti legata alla possibilità che gli abitanti hanno di gestire adeguatamente le proprie case, alla possibilità di una gestione adeguata e sostenibile dei servizi e delle infrastrutture e alla possibilità di una reazione ai disastri che siano in grado di limitare e di ridurne i danni sociali ed economici.
Forse allora il discorso più che sulla previsione che non c'è stata, dovrebbe essere posto sull'allarme che non c'è mai, sulle conoscenze che potrebbero consentire di ridurre la dannosità dei sismi e sulle politiche funzionali a una effettiva utilizzazione di queste conoscenze.
lunedì 6 aprile 2009
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