giovedì 16 dicembre 2010

Di che cosa ha bisogno l'università

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mercoledì 1 dicembre 2010

Riforma?



Ieri a Roma c'erano studenti, ricercatori e anche professori in piazza. Baroni non ne ho visti. Ieri pomeriggio poi ho partecipato a un consiglio di classe di un IV ginnasio: i professori hanno rappresentato una situazione disastrosa e disperante dei ragazzi. Disponibili sì ma con scarse capacità di attenzione, di comprensione e di appendimento: più dei due terzi sono sotto la sufficienza quasi in tutte le materie. Le soluzioni: più studio e più apprendimento mnemonico del Greco, del Latino, dell'Italiano, dell'Inglese e persino delle scienze. Da altri genitori sento che in altri IV ginnasi viene presentata una situazione analoga.
L'impatto della riforma Gelmini: un aumento della confusione, una maggiore dispersione delle materie tra insegnanti diversi, una ulteriore riduzione della capacità di interpretare la realtà e trovare risposte da parte dei docenti. Che gli insegnanti lasciati all'interno della scuola dalla scure della Gelmini siano i migliori è per lo meno molto opinabile. Che siano state almeno avviate iniziative per migliorare la qualità dell'insegnamento non è neanche vero a parole.
E all'università in che modo dovrebbero migliorare la didattica e la ricerca? Come era stato nei tentativi precedenti, anche nella riforma appena approvata non c'è alcuna misura che influisca sugli ostacoli che le università incontrano nel fare ricerca e nello svolgere attività formativa (burocrazia, mancanza di trasparenza, potere dei professori più anziani nel micro-ambiente, forme "deviate" di competizione, incertezza, peso dell'attività amministrativa, mancanza di fondi, e così via), ci sono soltanto norme sulle "forme", con un impatto nullo sulla sostanza.

domenica 21 novembre 2010

Scuole occupate



La scorsa settimana è stata caratterizzata dall'occupazione di numerose scuole in Italia. Io ho assistito a quella del Liceo Mamiani di Roma. Un aspetto mi ha colpito: piuttosto che finalizzata a conseguire degli obiettivi, è stata uno strumento per chiedere ascolto. Un ascolto che però non è stato prestato se non dai soggetti direttamente coinvolti: gli studenti stessi, i professori e qualche genitore. Un ascolto per di più, a volte motivato anche all'interesse a non essere danneggiati, nel proprio lavoro o nella propria vita familiare.

lunedì 24 maggio 2010

Sostenibilità sociale degli insediamenti

Negli ultimi mesi il Dipartimento CAVEA dell'Università di Roma, ha iniziato uno studio intitolato "Un territoire durable et un habitat de qualité à consommation zéro dans les zones à risque sismique " nell'ambito del programma "L'architecture de la grande échelle. Programme interdisciplinaire de recherche" del Ministero dell'ambiente francese. In questo contesto è iniziata anche una riflessione (seguita poi da alcune applicazioni sperimentali) sulle dimensioni della sostenibilità sociale degli insediamenti. Di seguito sono presentati alcuni primi elementi su cui si sta lavorando.

A.1. Dimensione macro

- La coerenza tra il sistema insediativo e le dinamiche di mutamento sociale connesse ai cambiamenti demografici al livello locale, ai movimenti migratori e ai processi socio-economici (lavoro, impresa, ecc.) ;

- La capacità del sistema insediativo di rendere conto dei rischi legati ai trasporti (isolamento, inquinamento, ecc.), all’integrazione della popolazione locale nel tessuto urbano e territoriale nel suo insieme (discriminazione, mancanza di partecipazione e di fruizione delle opportunità esistenti) e alla sicurezza del territorio (inclusa la questione della legalità);

- La valorizzazione nel sistema insediativo delle opportunità esistenti nel territorio (patrimonio culturale e naturale, stabilimenti produttivi, iniziative sociali, ecc.)

- La partecipazione effettiva di tutti gli attori sociali interessati all’uso e alla gestione delle reti socio-ambientali al livello macro (attori politici, imprese, utilities e imprese di gestione dei servizi pubblici, ecc.)

A.2. Dimensione meso (habitat intermédiaire)

- L’esistenza, l’accessibilità e la qualità di reti di servizi che consentano una effettiva tutela dai rischi di esclusione sociale (educazione, informazione, comunicazione, salute, energia, acqua e igiene, trasporti, ecc.)

- La capacità di tener conto delle soggettività e delle prospettive espresse dalle forme di organizzazione e di aggregazione dei cittadini (reti informali, gruppi, club, associazioni formali, relazioni di prossimità, ecc.) e la capacità di sostenerne lo sviluppo

- Il sostegno alle dinamiche di costruzione di uno spazio simbolico e di una identità condivisa tra gli abitanti (che richiede la messa in opera o il mantenimento dei sistemi di costruzione delle rappresentazioni, dei valori, degli obiettivi e delle motivazioni, dei sentimenti e delle norme sociali)

- La qualità dei processi politici e di creazione del consenso, tra gli abitanti, sulle decisioni relative allo spazio e alle modalità del suo uso

- Il sostegno alla creazione di nuove risorse al livello locale, sia di tipo economico (spazi per le imprese e le attività produttive) sia connessi alla conoscenza e alla comunicazione (spazi per la vita culturale e per l’aggregazione, anche di carattere informale)

- La costruzione di condizioni di sicurezza e di legalità, al livello locale (sia per quanto riguarda le condizioni sanitarie dell’habitat – inquinamento, ecc. – sia per quanto riguarda l’insorgere di genomeni di micro-criminalità o l’ingresso nella realtà locale di forme di criminalità organizzata)

- Le dinamiche di (ri)costruzione e di mantenimento dei legami sociali di prossimità e di familiaritàin un contesto inter-culturale e aperto all’ingresso di nuovi soggetti;

- La costruzione e il mantenimento della consapevolezza e della memoria del rischio sismico, soprattutto a lungo termine

- Il coinvolgimento degli attori interessati alla definizione e alla costruzione (progettazione, uso, ecc.) degli spazi, con particolare riferimento agli spazi collettivi o pubblici.

A.3. Dimensione micro : lo spazio dell’abitazione

- La coerenza con gli orientamenti e i comportamenti degli abitanti relative alle questioni della “comodità” (convenience) delle abitazioni e della loro localizzazione (strutturazione e articolazione interna; prossimità ai servizi e ai luoghi di lavoro; possibilità di pratica delle attività individuali ricreative, culturali, ecc; possibilità di coltivare le relazioni sociali e familiari, ecc.)

- La coerenza con gli orientamenti e i comportamenti degli abitanti in relazione al livello di confort(temperatura, luminosità, ecc.)

- La coerenza con gli orientamenti e i comportamenti degli abitanti in relazione all’ igiene (disponibilità dei servizi, accesso e consumo idrico, odori, gestione dei rifiuti, ecc.)

- La coerenza con le dinamiche di appartenenza e di identificazione con i luoghi, al livello individuale e familiare (legame con la casa, con il suo spazio e con il suo contenuto)

- La coerenza con le dinamiche di (ri)costruzione e di mantenimento dei legami sociali di prossimità e di familiarità

- La coerenza con le dinamiche relative alla consapevolezza e alla memoria della condizione di rischio (sismico), necessarie a mantenere nel lungo termine un orientamento a ridurre e a gestire la vulnerabilità delle costruzioni

- La coerenza con le dinamiche di trasformazione e di cambiamento nelle modalità di utilizzazione delle abitazioni e degli edifici (connesse ai mutamenti familiari, alle attività degli abitanti, alla variabilità della disponibilità economica, alle culture, ecc.)

- Il coinvolgimento effettivo degli attori interessati nella determinazione e nella costruzione (progettazione, costruzione, arredo, ecc.) dei propri spazi

L’equipe della ricerca ha come responsabile scientifico Nicoletta Trasi e comprende: Gianfrancesco Costantini, Luciano De Licio Valter Fabietti, Christiano Lepratti, Fabrizio Mollaioli, Rosario Pavia, Marcello PazzagIini, Guendalina Salimei.

lunedì 6 aprile 2009

Terremoti, Vulnerabilità, Previsione e Prevenzione

Chi nell’Italia centrale non si è svegliato stanotte, stamattina ha avuto un risveglio poco piacevole, con la notizia di un terremoto in Abruzzo e quella dei forti danni che esso ha provocato. Alla notizia e alle prime stime dei danni e del numero delle vittime hanno fatto seguito anche le polemiche sull’annuncio, inascoltato, dato da un ricercatore, circa il fatto che ci sarebbe stato un terremoto molto forte.

Tuttavia, c’è un forte consenso nella comunità scientifica internazionale circa il fatto che i terremoti non possano essere oggetto di previsioni attendibili. Si può sapere che ci saranno, si può sapere dove saranno (ormai le mappe sismiche del pianeta sono dettagliate), ma non si può sapere il giorno e l’ora in cui la scossa avrà luogo. Forse quindi piuttosto che sul mancato allerta alla popolazione (che sarebbe in ogni caso stato piuttosto generico e incerto) si dovrebbe discutere su altre cose: per esempio, sul perché siano crollati tanti edifici.

Che l’Italia centrale sia caratterizzata da un’elevata sismicità non è una novità: ci sono mappe accurate, c’è l’informazione su un grande numero di terremoti “storici” avvenuti negli ultimi duemila anni, c’è un monitoraggio continuo della sismicità. Inoltre, in Italia sono molto diffuse anche le informazioni circa la riduzione del rischio sismico: edilizia antisismica, controllo sugli interventi di modifica dell’edificato antico, forme di organizzazione della società civile, l’educazione, la ridondanza delle infrastrutture essenziali. Si potrebbe pensare che in una situazione di questo genere si agisca per ridurre la vulnerabilità ai terremoti: c’è un pericolo noto e sono note le misure di limitazione del rischio. Invece non è così: sembra che la vulnerabilità del nostro territorio e delle nostre città tenda a rimanere quasi immutata.

E anzi spesso tenda ad aumentare, non soltanto a causa di comportamenti impropri della popolazione (come quelli riguardanti la costruzione di nuovi edifici e gli interventi di costruzione su quelli esistenti, senza rispetto delle norme antisismiche o addirittura con materiali di scarsa qualità), ma anche grazie a politiche pubbliche inefficaci o addirittura dannose: da quelle relative alla gestione della crisi economica (che non tengono conto della possibilità che una popolazione possa essere posta in situazioni di esclusione sociale dall’accumulazione di processi dannosi diversi, e tendono a limitarsi a interventi straordinari su piccoli gruppi di persone o addirittura agli annunci rispetto ad azioni che non sono mai effettivamente attuate) a quelle riguardanti la gestione del territorio e dell’edificato, che in misura sempre maggiore tendono a non tener conto delle caratteristiche e dei rischi esistenti, allargando le aree su cui si costruisce, riducendo le forme di controllo dell’attività edilizia e rinunciando a qualsiasi forma di orientamento o di guida di questa attività.

Di fatto, la vulnerabilità sismica non riguarda infatti soltanto gli edifici, ma riguarda anche le popolazioni e le forme di organizzazione sociale. Essa è infatti legata alla possibilità che gli abitanti hanno di gestire adeguatamente le proprie case, alla possibilità di una gestione adeguata e sostenibile dei servizi e delle infrastrutture e alla possibilità di una reazione ai disastri che siano in grado di limitare e di ridurne i danni sociali ed economici.

Forse allora il discorso più che sulla previsione che non c'è stata, dovrebbe essere posto sull'allarme che non c'è mai, sulle conoscenze che potrebbero consentire di ridurre la dannosità dei sismi e sulle politiche funzionali a una effettiva utilizzazione di queste conoscenze.

venerdì 30 gennaio 2009

Sociologia e psicoanalisi. Primi appunti per una ricerca

Psicoanalisi e sociologia sono discipline nate quasi in modo contemporaneo. Tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, per entrambe, sono stati definiti quelli che potrebbero essere riconosciuti come gli elementi fondamentali dei rispettivi “paradigmi” (sebbene mentre per la psicanalisi è abbastanza comune l’idea che esista un paradigma condiviso, questa idea è assai meno diffusa per quanto riguarda la sociologia).

Sia la psicoanalisi, sia la sociologia sono state colte come forme di un nuovo modo di guardare agli individui e al loro rapporto con la realtà: non più soggetti in qualche modo autonomi e consapevoli, ma soggetti situati e quasi dominati da una varietà di forze, gran parte delle quali resta loro invisibile.

Ma queste non sono novità. Così come non lo è il fatto che nel corso di tutto il XX secolo ci siano stati numerosi contatti tra le due discipline, che hanno generato esiti diversi, riguardanti – per esempio – l’analisi dei processi di socializzazione e di sviluppo dell’individuo, i processi di civilizzazione o, ancora, la loro crisi.

Detto questo, appare necessario chiedersi se una ricerca sulla relazione interdisciplinare tra sociologia e psicanalisi possa ora portare a qualche novità e se abbia ancora un senso. Due elementi sembrerebbero pesare sulla possibilità di dare una risposta positiva a queste domande.

Il primo è relativo al fatto che, nonostante i numerosi contatti e i numerosi incontri, non sembra che si sia arrivati a costruire un punto di vista condiviso sui contributi della psicanalisi che la sociologia potrebbe far propri, e neanche sul modo in cui una interazione tra le due discipline potrebbe essere possibile. Questo suggerirebbe che ancora ci siano questioni aperte da esplorare.

Il secondo elemento può essere connesso alle difficoltà che la sociologia incontra nel rendere conto dei processi di mutamento in atto nelle società contemporanee, soprattutto per quanto riguarda la rilevanza delle dinamiche di carattere immateriale, per quanto riguarda la crescente differenziazione dei fenomeni che emergono nelle relazioni tra individui e società (diversificazione, conflitti, ecc.), e per quanto riguarda l’emergere di forme di realtà sociali con caratteristiche diverse da quelle delle società del XX secolo.

Un percorso di ricerca che provi a comprendere in che modo un’interazione tra psicoanalisi e sociologia possa consentire la produzione di nuove conoscenze non può però partire dal nulla. Un punto di partenza potrebbe, allora, essere definito a partire da una ricostruzione, sia pure sommaria, delle modalità attraverso le quali la sociologia è entrata in relazione con la psicoanalisi (considerando quest’ultima come un unico contesto, senza fare attenzione alle sue diversificazioni interne).

Un primo fatto da osservare, in questo quadro, potrebbe essere il mancato incontro avvenuto tra le due discipline negli anni della loro genesi e del loro consolidamento. Un mancato incontro che appare sorprendente.

Guardando ai sociologi della fine del XIX secolo e dei primi anni del XX, contemporanei all’attività di formalizzazione e di pubblicazione dei fondamenti della psicoanalisi, si scorge, infatti, un interesse esplicito per una conoscenza maggiore della psicologia del profondo (Durkheim), per le dinamiche non razionali che influiscono sui comportamento e delle idee degli individui e dei gruppi (Pareto, Weber, Mauss, Le Bon) e più in generale per l’idea di un individuo che – anche nella sua soggettività - non è totalmente libero.

Questo interesse non si traduce in una relazione determinata con la psicoanalisi. Tutt’altro, nessuno dei primi sociologi menziona la psicoanalisi o l’opera di Freud (e viceversa nessuno è menzionato da lui). Questa mancanza forse è da ricondurre a una separazione tra gli ambienti di riferimento (e quindi all’assenza di relazioni interdisciplinari), ma forse può anche essere collegata alla presenza di differenze epistemologiche: forse la stessa ricerca continua di un legame con la fisiologia da parte della psicoanalisi ha reso questa disciplina invisibile o intrattabile per i primi sociologi e a fatto sì che alla frequentazione della letteratura sociologica, Freud stesso preferisse quella degli studi di antropologia fisica e culturale.

Soltanto successivamente (Simmel, Monnerot) si riconosce la presenza di punti di vista e di interessi comuni tra il lavoro di alcuni sociologi e quello di Freud e dei suoi allievi.

Contemporaneo a questi riconoscimenti è però anche un rifiuto per così dire radicale dei contributi della psicoanalisi, che viene accusata di lavorare su tautologie e di rompere con quello che potrebbe essere chiamato il “paradigma di Durkheim”: i fatti devono essere studiati con il riferimento a fatti della loro stessa natura (Sorokin).

Un incontro più significativo tra sociologia e psicoanalisi avviene invece con il marxismo, nonostante le accuse rivolte da alcuni marxisti alla psicoanalisi come “scienza borghese”.

Questo secondo incontro, che ha come attori principali – almeno in un primo periodo – alcuni psicoanalisti (come Reich, per esempio) ha al suo centro una sorta di ricontestualizzazione delle tesi di Freud: si sostiene la rilevanza degli istinti e delle pulsioni, ma si ritiene che queste non siano soltanto condizionate biologicamente, ma anche dalle influenze dell’ambiente e della realtà sociale, quindi anche dalle sue dinamiche economiche.

In questo contesto, viene anche ripreso e reinterpretato il concetto di inconscio, che viene messo a confronto con quello marxiano di “falsa coscienza”: l’inconscio di Freud viene aperto quindi ad accogliere non soltanto i fatti legati alle pulsioni, ma anche quelli legati alle relazioni sociali. Nell’inconscio vengono occultati, per poi divenire in alcuni casi oggetto di razionalizzazione e sublimazione, quegli elementi delle relazioni tra gli uomini che sono disfunzionali rispetto alla società esistente e che se pervenissero allo stato di consapevolezza tenderebbero a rompere l’ordine costituito delle cose (Fromm, Althusser, Marcuse). In questo senso, si potrebbe parlare dell’assunzione nel contesto disciplinare della sociologia di elementi di spiegazione della realtà propri della psicoanalisi.

L’assunzione selettiva di teorie e di concetti in un quadro teorico più ampio è anche praticata in relazione ad altri ambiti teorici, come quello dell’analisi della cultura (in questo ambito si riconosce a Freud la scoperta di un legame tra Kultur – civiltà - e Zivilization – processo di affinamento culturale e tecnologico) o quello della teoria delle masse, all’interno del quale viene inserito il tema dell’identificazione con il capo (Horkheimer).

Un terzo modo di guardare alla psicanalisi – particolarmente fecondo anche per la ricerca empirica – è quello di considerarla come uno scrigno di fenomeni che possono essere studiati anche attraverso altre discipline. E’ quanto fa, per esempio, Adorno nella ricerca sulla personalità autoritaria, individuando nel lavoro degli psicanalisti i fenomeni del pensiero stereotipo, del sadismo mascherato, dell’adorazione della forza, del cieco riconoscimento di tutto ciò che è efficace, e così via.

Un'altra porta tra il mondo della psicanalisi e quello della sociologia si può individuare nello studio della conoscenza.

In particolare, ad aprirla sono Mannheim e Elias.

Il primo mette in luce la compatibilità tra le tesi di Freud e il punto di vista della sociologia (l’io come “creatura sociale” invece che come individuo isolato) per poi arrivare a individuare nell’inconscio (collettivo) e negli aspetti del pensare che non possono essere spiegati adeguatamente senza rintracciarne le origini sociali un’area di studio privilegiata per la sociologia.

Il secondo colloca al centro dell’analisi del processo di civilizzazione i meccanismi (identificati in sede psicoanalitica) di “auto-costringimento”, di rimozione dei conflitti, di identificazione sociale e formazione di proiezioni.

Anche in questo caso, l’assunzione di alcuni elementi della teoria psicoanalitica in un contesto disciplinare diverso si traduce in un aumento della capacità di render conto dei fatti sociali (si può considerare, ad esempio, a questo proposito, l’analisi di alcuni conflitti svolta dall’eliasiano A.De Swaan alla fine del decennio passato).

Osservando dall’alto la sociologia si può vedere anche un altro modo di entrare in contatto con la psicoanalisi. Si tratta dell’assunzione “parziale” della teoria, così da renderla compatibile con altri modelli di analisi e di spiegazione della realtà sociale.

E’ in questo modo che la psicoanalisi entra all’interno della sociologia americana, prima attraverso alcuni sociologi interazionisti e poi, in una forma più forte, per mezzo del lavoro di Talcott Parsons. Questi, infatti, assume la teoria dell’introiezione (definendola “interiorizzazione”) e la colloca al centro della sua teoria della socializzazione, ma lo fa creando una totale compatibilità (se non una sovrapposizione) con le teorie della coscienza collettiva di Durkheim e del “Sé” di Mead.

Allo stesso modo, Parsons individua nel lavoro psicoanalitico alcuni elementi utili per trattare lo sviluppo delle motivazioni e – purificandoli parzialmente dal peso del riferimento al biologico – li inserisce nello schema AGIL (adaptation, goal attainment, integration, latent pattern maintenance), nella teoria dell’azione e nella teoria della personalità come “learned behavioral system”.

Il rischio di un’operazione di questo genere – messo in evidenza da Neil Smelser (sociologo e psicoanalista) – è di sterilizzare la psicoanalisi, perdendone i tratti di originalità e quindi rendendola inefficace nell’individuazione di nuovi fenomeni.

Un altro contesto in cui la sociologia ha incontrato e, in una certa misura, si è impossessata della psicoanalisi si può identificare nello studio delle società non occidentali (le “società primitive” per dirla con le parole di alcuni autori).

La teoria dell’identificazione con il padre e la teoria del “complesso di Edipo” sono fatte proprie, anche se con modalità diverse, sia da alcuni antropologi “classici” (da Sapir, a M.Mead a R.Benedict), sia da alcuni strutturalisti (come C.Lévi-Strauss o R.Bastide).

La ricerca strutturalista sembra rappresentare, in effetti, un altro luogo di incontro tra la psicanalisi e la sociologia. In questo spazio – forse in maniera diversa da quanto è avvenuto in altri casi - avviene un vero e proprio scambio: nell’ambito disciplinare della psicoanalisi sono introdotti i risultati degli studi sulla lingua e sui miti (Lacan), in quello della sociologia si inseriscono – in una situazione più centrale - temi come quello del “desiderio” e sistemi di fenomeni come quello del “sogno” (Guattari, Deleuze).

Le interazioni tra psicoanalisi e sociologia non sono, però, l’oggetto di una vicenda conclusa e di cui si devono riallacciare le fila. Piuttosto, oltre alle relazioni del passato, si dovrebbe guardare anche alle forme di interazione che sono in corso, basti pensare al lavoro che è in atto sull’analisi dei gruppi – che trova origine, per quanto riguarda la sociologia, soprattutto nella sociologia della conoscenza – o alla ricerca sul “social dreaming”, nella quale si fanno propri, adattandoli alla dimensione collettiva, non soltanto strumenti teorici, ma anche strumenti metodologici tipici della psicoanalisi.

La ricerca di un terreno comune non è finita, quindi, tuttavia essa non appare neanche come un’operazione priva di rischi.

Alcuni di questi rischi possono essere rilevati osservando il passato, ma possono continuamente di tornare attuali. Si tratta, per esempio, di quelli di ricondurre alla biologia i comportamenti sociali (in una sorta di post-positivismo); di far coincidere i meccanismi di sviluppo degli individui e quelli di sviluppo della società; di correggere semplicisticamente i presunti “errori”; di utilizzare in modo analogico dei concetti, riprendendoli soprattutto come formulazioni linguistiche – magari per indicare fenomeni già noti - senza render conto della loro complessità e delle loro implicazioni.

Un altro rischio – forse più importante degli altri perché meno visibile – è quello di assumere le teorie psicoanalitiche sottraendo loro la caratteristica della dinamicità, interna tanto all’analisi quanto ai fenomeni analizzati. In questo modo tali teorie e i loro strumenti concettuali si traducono in una sorta di modello statico del rapporto tra individuo e società e se ne riduce la portata proprio in quegli aspetti che rendono il guardare alla psicoanalisi interessante per la sociologia, vale a dire l’orientamento a non cancellare e a non “ridurre” le contraddizioni e le situazioni di conflitto tra i fenomeni, ma anzi a collocarle al centro dell’interpretazione e della spiegazione.

Un percorso di incontro tra la sociologia e la psicoanalisi, che tenga conto sia di quanto già si è provato a fare, sia dei rischi esistenti, potrebbe allora trovare uno spazio privilegiato proprio nello studio di fenomeni che quasi “di per sé” tendono a individuare situazioni dinamiche e in cui la dimensione del conflitto è ineliminabile. Due aree fenomeniche che, tra le altre, potrebbero inserite in questo contesto, sono quella relativa all’inconscio (con tutto ciò che si porta dietro, dal conflitto tra conscio e inconscio, alle situazioni di ambivalenza, di mascheramento della realtà e di resistenza) e quella riguardante le pulsioni, il desiderio e il rapporto tra questi e la realtà sociale.



Alcuni riferimenti bibliografici

Bastide R. (1970), Sociologia e Psicoanalisi
D.Aloia A. (2008), Marxism and Psychoanalysis
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Dreyfus H.L., Rabinow P.(1989), La ricerca di Michel Foucault
Elias N. (1988) Il processo di civilizzazione
Elias N. (1990), La società degli individui
Fromm E. (1929), Psychoanalisis and Sociology
Fromm E. (s.d.), L’inconscio sociale
Horkeimer M., Adorno Th.W. (1966), Lezioni di sociologia
Koenigsberg R (2005), Making Conscious the Unconscious in Social Reality
Lacoutre J.-P. (2002), Freud et Mauss. Un rendez-vous manqué
Mannheim K (2001), Sociology as Political Education
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Turner J.H. (s.d.), Psychoanalytic Sociological Theories and Emotions
Williams CH.L. (2000), Psychoanalysis and Sociology

lunedì 19 gennaio 2009

Politiche, povertà e sviluppo.

Nel corso delle ultime settimane i giornali sono stati ricchi di notizie sulle misure attivate da molti soggetti per far fronte alla crisi economica e finanziaria in corso al livello internazionale. In Italia sembrerebbe che le azioni proposte o effettivamente messe in atto riguardino soprattutto l’assistenza ai “poveri”.

Da un lato il governo nazionale e le amministrazioni regionali e locali hanno identificato e lanciato iniziative (spesso di dubbia efficacia) per integrare i redditi dei meno abbienti; dall’altro misure, caratterizzate dallo stesso obiettivo sono state attivate da alcune diocesi e persino da alcune associazioni di lavoratori.

Le azioni sono molto diverse. Tutte però sembrano avere al proprio centro due elementi:

- un orientamento a non influire sui processi che generano la povertà e su quelli che generano i fenomeni di crisi economica;
- la mancanza di capacità di discriminazione e di discernimento.

L’esempio più palese di questo probabilmente è la “Social Card”: destinata a tutte le persone con il reddito inferiore a una soglia definita al livello nazionale, non è in grado né di tener conto delle differenze territoriali esistenti nel paese (così che la maggior parte delle “carte” è stata distribuita nei luoghi in cui il costo della vita è inferiore e in cui probabilmente una parte non irrilevante dell’economia è sofferta), né delle diverse maniere in cui i cittadini sono toccati dalla “crisi economica”.

La conseguenza della mancanza di discriminazione e di discernimento comportano non soltanto un impatto nullo delle misure assunte sulle dinamiche economiche e sociali connesse (non producendo né effetti sul rapporto tra domanda e offerta di beni, né sul consolidamento delle reti sociali che nei fatti “gestiscono” le crisi, né tantomeno sull’attivazione di processi che possano favorire una effettiva ripresa di forme di sviluppo del territorio), ma anche un loro impatto assai ridotto sui soggetti alla cui assistenza sono dedicate (l’aiuto offerto infatti è irrilevante rispetto alle effettive necessità di alcuni di essi, mentre per alcuni che potrebbero averne vantaggi è assolutamente impossibile l’accesso).

Sembrerebbe che nel rispondere alla crisi e alle emergenze in atto, si sia rinunciato – da parte della maggior parte dei soggetti coinvolti – a prendere sul serio il patrimonio di ricerca esistente sulle politiche e le misure di sviluppo locale da un lato e sulle politiche di lotta alla povertà e all’esclusione sociale dall’altro. La ricerca su questi due ambiti ha infatti messo in evidenza come soltanto in pochi casi un accesso “tout court” alle risorse finanziarie e o a una generica “assistenza” produca effetti di riduzione della povertà e di mobilitazione di processi di cambiamento.