mercoledì 30 aprile 2008

Meccanismi di trasformazione

Tra qualche giorno si terrà il “Forum PA ‘08”. Una grande fiera della pubblica amministrazione, che da alcuni anni – bene o male – funziona come un palcoscenico sul quale sfilano le iniziative e le idee legate alla riforma dell’amministrazione in Italia.

Tra le iniziative previste c’è l’apertura di una sezione espositiva dedicata al “Project Management”, che viene presentata così: “Tutte le organizzazioni, pubbliche o private, oltre allo svolgimento delle normali attività di routine sono sempre più coinvolte nella gestione di specifici “progetti”, intendendo per progetto uno impegno temporaneo teso al raggiungimento di specifici obiettivi e in presenza di vincoli, sempre crescenti, di tempo, costi e qualità; e questo soprattutto in un’ottica di cambiamento e di innovazione, considerando i progetti come un insieme di processi di buona pianificazione e controllo di una impresa che permetta ad una organizzazione di realizzare nuovo prodotto/servizio o, più in generale, di produrre valore per i propri utenti/clienti finali” (http://expo.forumpa.it/page/35522/project-management-nuovi-modelli-di-partnership-pubblico-privato-e-forum-pa-2008 )

Si tratta di una definizione in cui è possibile riconoscere le iniziative che da almeno 20 anni sono realizzate sia in Italia, sia in altri paesi. Quasi ovunque, infatti, cercando meccanismi per promuovere un migliore funzionamento e una maggiore trasparenza delle pubbliche amministrazioni, sono state introdotte nuove modalità di azione che avevano alla base un’idea mutuata dall’ingegneria e dall’architettura: quella di un’opera che ha un inizio e un termine, un obiettivo definito, risorse determinate, utenti finali e così via.

Forse, però, è proprio a una definizione come quella riportata sopra che può essere addebitato il fatto che ancora, nonostante gli sforzi e gli investimenti, nelle amministrazioni pubbliche si osservino spesso fenomeni, come – per esempio - l’emergere di effetti e risultati diversi da quelli attesi, la carente identificazione, formulazione e implementazione dei progetti stessi e, più in generale, il loro impatto limitato sul funzionamento della PA nel suo complesso (con l’effetto perverso di una perdita di risorse, di efficienza e di efficacia).

Una definizione come quella citata, infatti, tende a mantenere i “progetti” come elementi estranei alle organizzazioni e alle loro normali attività (che - per le amministrazioni pubbliche – si possono spesso identificare con l’offerta continua e quotidiana di servizi, con la gestione di conoscenze e informazioni e con la gestione di processi in atto nella società che le circonda) e, in questo modo, tende a neutralizzarli e a renderli “fattori di disturbo” nella vita dell’amministrazione o, nei casi migliori, il modo attraverso il quale funzionari curiosi e intelligenti sperimentano idee e soluzioni, con rischi e con impatti limitati.

Prendere sul serio i progetti e il project management, così da influire effettivamente sul funzionamento della PA, non può invece prescindere da una loro reale e completa integrazione nell’attività continua e quotidiana dell’amministrazione stessa, come una modalità per il conseguimento dei suoi obiettivi. Questo appare però legato ad alcune condizioni.

La prima è l’abbandono dell’idea dei progetti come “impegni temporanei” volti al conseguimento di specifici obiettivi, in favore di un riconoscimento della dimensione processuale che è propria di tutte le attività della pubblica amministrazione ed è ineliminabile.

La seconda è il superamento della concezione del progetto come semplice componente di un meccanismo di finanziamento (si elaborano progetti perché sono un modo per accedere a nuove risorse oltre quelle dei budget ordinari).

La terza, infine, è l’accettazione del fatto che i progetti non influiscano soltanto su singoli segmenti dell’amministrazione coinvolta, ma che entrino ad incidere su tutti gli aspetti dell’amministrazione stessa.

Non si tratta di una grande novità: gli schemi e i formulari che di volta in volta le diverse organizzazioni internazionali definiscono e propongono richiedono di determinare non soltanto gli obiettivi, le azioni proposte, le risorse impiegate e gli indicatori del conseguimento dei risultati, ma anche le strutture organizzative, le partnership, i meccanismi decisionali, i rischi connessi all’attività proposta, le condizioni per il suo funzionamento e le alternative, e così via

E’ abbastanza evidente, quindi, che, quasi per sua natura, un progetto per essere di “buona qualità” tenda a modificare tutto ciò che entra in contatto con lui e a costituire un motore o un meccanismo di mutamento, che non investe soltanto alcuni aspetti di un’attività o di un’organizzazzione, ma la pervade nella sua stessa essenza.

Esso, infatti, comporta la determinazione di obiettivi condivisi, la messa in opera di partnership efficaci, il coinvolgimento dei diversi attori coinvolti nei servizi, la valorizzazione delle conoscenze e delle capacità, la ridefinizione di processi e procedure, cioè, in sostanza, di avviare un processo di costruzione di un nuovo sistema di significati, norme, rappresentazioni, relazioni, modalità di azione e comportamento, funzionale a rendere socialmente condivise e interiorizzate le innovazioni che sono al centro dei progetti medesimi.

Questo ora avviene in pochi casi. Perché in pochi casi la determinazione dei vari elementi di un progetto supera la soglia della mera retorica. Prima si definisce che cosa si vuole fare, sulla base delle risorse disponibili, e poi si redige un documento volto ad ottenere tali risorse.

martedì 29 aprile 2008

La città e la paura

http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/politica/saluti-romani-alemanno/7.html

Questa è la nuova sicurezza della città di Roma.
Ma davvero le elezioni a Roma sono state perse dalla sinistra sulla questione della sicurezza?

Secondo le statistiche Roma era ed è una delle città più sicure d’Europa del mondo, eppure negli ultimi mesi non si è fatto altro che parlare di sicurezza, nella campagna elettorale questo è stato l’unico tema trattato e sembra che siano bastati tre delitti (mentre in altre città d’Italia ne venivano commessi altri, in alcuni casi molto più atroci) per rendere Roma una città insicura.

Ora i candidati dicono “abbiamo vinto” o “abbiamo perso” sulla sicurezza. Ma forse le cose sono in altro modo. Forse semplicemente le elezioni sono state perse per la mancanza di concretezza del governo urbano. Una mancanza di concretezza che è stata sostituita dai discorsi della sicurezza.

Il governo della città si era lasciato sfuggire di mano alcuni degli elementi che producono il maggiore allarme nelle città contemporanee, quelli del degrado fisico: strade in cattive condizioni, sporcizia, cattiva illuminazione, carente gestione dell’ambiente, trasporti problematici e stazioni ferroviarie invecchiate, e così via.

Ma la sporcizia delle strade non produce criminalità, mentre questa sicuramente è diminuita dalla diffusione di eventi pubblici, dalla animazione delle strade e da una intensa vita culturale (compresa quella prodotta dai “centri occupati”). Tutte cose abbastanza diffuse a Roma, che probabilmente hanno favorito una condizione oggettiva di sicurezza sulla quasi totalità del territorio urbano. Con due problemi però: la diffusione poco uniforme sul territorio delle iniziative di animazione (aree della città sono apparse abbandonate a se stesse) e la scarsa attenzione al fatto che queste stesse fossero percepite come elementi di una condizione di maggiore sicurezza dalla maggior parte della popolazione.

Invece, i governanti della città per primi – inseguendo quelli che della sicurezza e della restrizione delle libertà individuali hanno sempre fatto la loro bandiera – hanno iniziato a parlare di una questione insicurezza e di una questione immigrazione (peccato che la condizione di irregolarità in cui sono costretti alcuni gruppi di immigrati sia uno dei principali elementi che alimenta i comportamenti illegali).

E dai discorsi sull’insicurezza nasce la paura, che spesso genera comportamenti che aumentano una effettiva insicurezza, come - solo per fare qualche esempio - le risposte violente alle minacce orali, la segregazione di gruppi umani., la mancanza di uso di porzioni di territorio.

E forse anche la diminuzione degli elettori è almeno in parte da addebitare al prevalere delle discussioni sulla sicurezza rispetto a quelle sulla concretezza del vivere urbano.

venerdì 25 aprile 2008

Sgomberi e riqualificazione delle città

Da qualche tempo sembra che in Italia sia tornato di moda lo sgombero degli insediamenti abusivi (soprattutto di immigrati e di “nomadi”) che sorgono dentro e ai margini della città.

E’ strano, perché di sgombero nella letteratura internazionale e nelle esperienze condotte in tutto il mondo sulla riqualificazione urbana non si parla più da anni. Spesso lo si pratica, ma in silenzio.

La prima caratteristica di una politica di riqualificazione fondata sullo “sgombero” è la totale inefficacia: lo spazio che era occupato dalle baracche se non è occupato e utilizzato per qualcos’altro torna in breve ad essere occupato. E’ successo a Bologna e inizia ad accadere anche a Roma. Prima però era successo in centinaia di città del mondo.

La seconda caratteristica di una politica di questo genere è che genera nuovo degrado e radicalizza i problemi esistenti: gli occupanti irregolari del territorio assumono come un dato il fatto che prima o poi saranno sgomberati e quindi non curano il luogo in cui sono. Una politica di sgomberi implica:
- aree di territorio urbano sempre più degradate, con abitazioni sempre più fatiscenti e condizioni igieniche sempre peggiori;
- una condizione di conflitto costante tra gli abitanti degli insediamenti informali e quelli della “città formale”;
- la presenza nelle aree di insediamento di persone sempre meno “integrate” nella società circostante (persone che proprio la condizione di irregolarità e marginalità porta ad essere in modo frequente sia gli autori sia le vittime di reati);
- una condizione di insicurezza reale e percepita per tutti i soggetti coinvolti e spesso il vero e proprio abbandono di pezzi di territorio, che è oggetto di processi di stigmatizzazione.

In Brasile ci sono casi esemplari: nello stato di San Paolo il mantenimento di una politica orientata a liberare il territorio dagli insediamenti illegali si è tradotta nel fatto che le baraccopoli sono sempre rimaste tali e sono, in maniera sempre maggiore, uscite dal controllo pubblico.

La terza caratteristica di una politica fondata sugli sgomberi è che tende a violare diritti umani fondamentali. Primo tra tutti quello a un “rifugio” (che è stato sancito nel Summit delle Nazioni Unite che si è tenuto a Istanbul nel 1996, la cui dichiarazione finale è stata ratificata dall’Italia). Sono abbastanza poche le immagini pubblicate degli sgomberi di insediamenti informali: forse perché a nessuno piace di vedere gli occhi spaventati dei bambini che, insieme agli adulti, vedono la loro vita resa ancora più precaria.

Eppure negli ultimi due decenni sono state sperimentate altre soluzioni, in genere più efficaci. Quasi tutte sono fondate sul principio della regolarizzazione e della legalizzazione, . Per riportare un insediamento e i suoi abitanti nella città il primo passo è quello di riconoscerlo.

Un secondo elemento che le caratterizza è quello dell’accoglienza, ma qui si apre un altro capitolo, sulla trasformazione urbana (e degli edifici), sull’uso degli spazi e sulle grandi difficoltà degli interventi fondati sulla costruzione di case popolari.

Un terzo, è quello del discernimento: non tutti i territori sono uguali e neanche tutti gli abitanti degli insediamenti informali.

Un altro è quello della partecipazione. Anche a Roma ci sono esempi recenti: fino a qualche tempo fa il “villaggio dei pescatori” di Ostia era in condizioni peggiori di molti slum del resto del mondo, ora dopo la formazione di un comitato degli abitanti, le cose stanno cambiando in modo evidente.

Un sito su questa questione: www.cohre.org/ e uno che racconta di una esperienza. http://www.fna.org.br/seminario/pdfs/Tema(3)Palestra%20(3).pdf

giovedì 24 aprile 2008

solid melts in the air

La ricerca sociale spesso produce informazioni, intuizioni e conoscenza che non trovano spazio in pubblicazioni formali. A volte perchè non ci sono le risorse per approfondirli, altre perchè sono relegati nella "letteratura grigia" dei rapporti ai committenti, altre ancora, semplicemente, perchè non c'è il tempo di scrivere.

Questo blog è dedicato ad appuntare questi "sottoprodotti" della ricerca.

Più che uno strumento per esprimere un punto di vista sul mondo, rappresenta un block notes su cui segnare, per non perderle, le osservazioni, le intuizioni e le idee che si formulano nel corso dell'attività quotidiana. Sperando che producano comunque un po' di conoscenza.

Il titolo riprende una frase di Marx ("All that is solid melts into air") che negli anni '80 fu usata da Marshall Berman per parlare dell'esperienza della modernità, ma che ben si adatta anche a pensare alla società contemporanea - quella che spesso viene chiamata "società della conoscenza" - in cui gli aspetti immateriali diventano spesso più potenti di quelli materiali, nella quale nulla che sia "solido" conta finchè non assume anche una dimensione immateriale e dove spesso gli aspetti ritenuti più solidi della vita e dell'identità si frammentano, si disintegrano, perdono il loro orientamento e assumono aspetti contraddittori e paradossali.