sabato 17 maggio 2008

Fannulloni e nullafacenti. La PA e il settore privato

Qualche giorno fa, con la nomina del nuovo ministro della funzione pubblica, è stata riavviata la polemica sulla presenza di fannulloni, nullafacenti e assenteisti nelle amministrazioni pubbliche italiane, nonché sulla opportunità e la necessità di licenziarli per consentire alla PA di svolgere adeguatamente il suo ruolo. Secondo il ministro (ma non soltanto per lui) nella PA sono presenti tassi di assenteismo doppi rispetto al privato e l'unico ragione per cui essa, nonostante questo, ancora non sia “fallita” è che non è in condizione di concorrenza con il privato. Oltre al licenziamento dei fannulloni, quindi, una seconda prescrizione per guarire i problema di una PA ammalata è la concorrenza. C'è anche una terza ricetta: l'eliminazione della carta e la digitalizzazione, aumentando la trasparenza.
Tre soluzioni con cui, sulla carta, tutti sono da molto tempo d'accordo: è dagli anni '80 che in tutto il mondo si è proposto l'approccio del New Public Management che tende ad inserire nelle amministrazioni pubbliche principi di gestione tratti dall'esperienza del settore privato e principi di mercato e di concorrenza; è da almeno un decennio che si annuncia l'introduzione delle tecnologie dell'informazione, e – forse in Italia più che altrove - è da anni che si parla di meritocrazia. Tuttavia, anche se molte cose sono cambiate, le questioni restano e le tre vie indicate dal ministro sono state percorse con scarsa efficacia.
Forse allora, si dovrebbe pensare che i “problemi” reali e le vere soluzioni siano altrove (per esempio, in quello che il Ministro Brunetta considera un mistero o una stranezza dovuta all'amor proprio di alcuni individui, cioè il fatto che nonostante i nullafacenti le PA sono piene di persone di grande qualità e che svolgono il loro lavoro con dedizione).
Prima di cercare di comprendere le ragioni di questo mistero, si dovrebbe però riflettere su un fatto molto semplice: ci sono differenze non eliminabili tra il settore privato e l'amministrazione pubblica che fanno sì che trasferimenti non mediati di tecnologie, approcci e strumenti di gestione non abbiano successo e che rendono l'idea della concorrenza nel migliore dei casi, nel peggiore nociva. Non è un caso che nei paesi in cui il “New Public Management” è stato introdotto con maggiore forza (e con maggiore efficacia) – come il Regno Unito, l'Australia, il Canada e la Nuova Zelanda - non se ne parli più e si stiano cercando correttivi per riparare i danni che un eccessivo riferimento al mercato e al settore privato hanno provocato.
Una prima differenza riguarda la natura e lo scopo della pubblica amministrazione: essa non deve soltanto prestare servizi, quanto soprattutto deve garantire l'esercizio dei diritti dei cittadini e il governo della realtà. Questo vuol dire, che essa deve soddisfare esigenze che non possono essere considerate agevolmente nella concorrenza con il settore privato (per esempio, quelle di “innovazione” e qualità sociale: non è un caso che l'introduzione del sistema dei “vaucher formativi” in paesi tanto diversi quanto il Canada, l'Australia e il Brasile abbia avuto come primo risultato una riduzione dell'innovazione nella formazione).
Una seconda differenza riguarda i soggetti coinvolti. Nonostante il fatto che anche per le imprese si sia parlato di una pluralità di stakeholders, che comprendono non soltanto gli imprenditori stessi, ma anche lavoratori, fornitori, clienti, ecc. (paradossalmente, in questo caso è il settore privato che, con successo, ha assunto elementi provenienti dall'esperienza del settore pubblico), per le pubbliche amministrazione questi soggetti sono in maggior numero, maggiormente diversificati e – soprattutto – con ruoli che non sempre sono semplici da distinguere: i cittadini non sono soltanto utenti o clienti dei servizi, essi ne sono i “proprietari” (e che cosa sono i funzionari? e i politici, ai diversi livelli? e così via..). Inoltre, mentre in un'impresa gli interessi dei soggetti coinvolti tendono a convergere (o a divergere nel caso di conflitti, ma comunque devono fare i conti con quelli di un soggetto più o meno definito: l'imprenditore), nelle PA gli interessi sono assai diversificati e rispondo spesso a molti e diversi principi di legittimità (sociale e culturale, oltre che giuridica).
Un terzo elemento è costituito dallo stesso oggetto dell'attività nella PA. Anche assumendo un punto di vista molto astratto e tendenzialmente riduzionista, si tratta almeno della prestazione di servizi, della garanzia dell'esercizio dei diritti, del governo della realtà. Tre oggetti assai poco materiali, rispetto ai quali esistono diverse prospettive e diversi interessi. Questo non vuol dire che non sia possibile valutarne il conseguimento (come richiederebbe un sistema meritocratico), vuol dire però che farlo non è semplice come guardare il bilancio di un'impresa o la corretta esecuzione di un progetto industriale e che, soprattutto, non è sufficiente definire dall'alto qualche standard (a questo proposito vale la pena di ricordare l'esperienza delle “carte dei servizi”: in alcuni casi esse sono semplici fotografie della realtà attuale, in altre contengono obiettivi astratti, quasi mai soddisfano gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nell'uso dei servizi stessi).
Queste sono soltanto le prime e più evidenti differenze, via via che si scende nel concreto ne emergono molte altre (e se si vuole fare sul serio è necessario: uno dei problemi centrali dell'attuazione delle riforme nella PA italiana è stata la difficoltà del conseguire livelli adeguati di concretezza).

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo intervento mi sembra illuminante. Ma secondo te (anche se non risolverà certo il problema del funzionamento della PA), sulla base degli studi che hai fatto in giro per l'Europa, al di là della demagogia, esistono sistemi per far lavorare quelli che non lo fanno nelle PA? Sarebbe anche molto bello trovare qualcosa di simile per gli insegnanti...

gianfrancesco costantini ha detto...

Forse riattivando davvero gli spazi di "partecipazione" dei cittadini al governo della scuola: pretendendo di intervenire sui POF, mettendo in questione i bilanci, spingendo le scuole a definire standard e carte dei servizi effettivi e così via