martedì 20 maggio 2008

Innovazione, conoscenza, business

“Innovazione, Conoscenza, Business . Analisi e prospettive per il knowledge Management” è il titolo di un incontro con Larry Prusak, organizzato il 19 maggio da Assoknowledge di Confindustria e dalla LUISS Guido Carli. Hanno preso parte alla discussione Innocenzo Cipolletta, Ennio Lucarelli, Giuseppe Morandini, Roberto Panzarani, Leonardo Santi, Luca De Biase, Laura Deitinger, Massimo Egidi e anch'io che sto scrivendo, di fronte a una platea molto attiva, composta da studiosi, imprenditori e amministratori pubblici (http://www.luiss.it/eventi/ ).
E' stata un'occasione per riprendere una riflessione sul knowledge management che andasse al di là delle mode e degli stereotipi, che in Italia si concretizzano soprattutto in tre diffuse rappresentazioni: quella circa il fatto che il Knowledge Management si riduca a un insieme di tecnologie per l'archiviazione e il recupero delle informazioni; quella relativa al fatto che esso sia utile e sia applicabile soltanto alle grandi imprese o alle grandi organizzazioni pubbliche e quella relativa al fatto che la sua applicazione richiede grandi investimenti, sia di tempo, sia di risorse finanziarie.
Una riflessione che cerchi di superare questi stereotipi può essere articolata su tre insiemi di osservazioni.
Il primo riguarda le ragioni del knowledge management. Ce ne sono molte, ma probabilmente basta ricordarne qualcuna:
- la crescita della rilevanza degli elementi immateriali nella realtà sociale contemporanea, al livello internazionale (le rappresentazioni e i significati attribuiti alla realtà sono – più che in qualsiasi altro passato – capaci di modificare la realtà stessa e di produrre effetti reali: dalla “notizia” dell'insicurezza che produce insicurezza, alle voci nel mercato finanziario che ne compromettono il funzionamento;
- l'aumento delle informazioni disponibili e la diminuzione del loro costo, grazie in primo luogo alla diffusione delle ITC, che paradossalmente produce una maggiore necessità di esercitare il discernimento, la gerarchizzazione e la scelta, cioè di utilizzare la conoscenza, intesa come attività umana di attribuzione di significato alle informazioni stesse (e questa conoscenza ha un costo che è proporzionalmente inverso a quello dell'informazione);
- l'emergere di paradossi circa la conoscenza: non soltanto la conoscenza disponibile e apparentemente “utile” non sempre lo è davvero, ma soprattutto, quasi mai si riesce a tradurre effettivamente la conoscenza tacita in conoscenza esplicita (ciò comporta tra l'altro il fatto che archivi e repertori rischiano di essere inutili se non c'è un attore in grado di renderli significanti);
- infine il fatto, più evidente che in passato anche grazie al fatto che numerose nuove applicazioni della scienza e della tecnologia generano discussioni etiche e politiche, che la conoscenza e la stessa informazione hanno una natura sociale e non si incarnano in “innovazioni” se non quando sono oggetto di un processo di creazione di significati, norme, rappresentazioni condivise. Vale a dire, se non è oggetto di un processo di socializzazione (che può assumere anche l'aspetto della professionalizzazione: cioè della nascita e dello sviluppo di una identità professionale che è portatrice di valori, finalità, saperi, rappresentazioni del mondo, norme di comportamento, e così via, e che si materializza in un gruppo umano).
Questi elementi rendono indispensabile alle imprese (ma anche alle organizzazioni non profit e alle amministrazioni pubbliche) di ridefinire almeno parzialmente la propria identità e la propria modalità di funzionamento.
Piuttosto che dei semplici sistemi di organizzazione e gestione delle risorse rispetto a uno scopo (là dove l'imprenditore poteva sembrare l'attore che riusciva a organizzare insieme capitale, lavoro e tecnica) le imprese sono di fatto divenute dei motori di generazione e utilizzazione di conoscenza. Il problema è che spesso non ne sono consapevoli, o sono consapevoli di una sola dimensione del complesso mondo delle conoscenze: quella dell'informazione.
Il secondo insieme di osservazioni riguarda i vantaggi che può produrre l'adozione di un approccio all'esercizio e alla gestione della conoscenza. Una ricerca condotta due anni fa da Laboratorio di scienze della cittadinanza (www.scienzecittadinanza.org/public/RAKMLezioniapprese.pdf ) ha permesso di registrare i seguenti effetti:
- un aumento della sintonia con la realtà esterna (in particolare, con quella realtà complessa, che potrebbe essere definita società della conoscenza, che prevede nuovi ruoli e nuove modalità di funzionamento per le imprese e le organizzazioni);
- il conseguimento di alcuni specifici vantaggi, relativi alla qualità dei servizi e dell'azione, al miglioramento delle procedure interne, alla costruzione di clima caratterizzato dal rafforzamento della fiducia tra i soggetti coinvolti, alla capacità di individuare i fattori di rischio, alla trasparenza interna, alla gestione dei processi di cambiamento, all'identificazione di nuove opportunità, alla gestione delle partnership;
- la generazione di alcuni vantaggi per gli individui coinvolti e la loro attività professionale, in particolare per quanto riguarda la determinazione dell'identità professionale, la gestione dei rapporti con l'organizzazione, e più in generale i processi di professionalizzazione (cfr. quanto si è detto sopra sulla socializzazione della scienza e della tecnologia).
Il terzo insieme di osservazioni riguarda le condizioni di “applicabilità”. Spesso l'introduzione di misure di gestione della conoscenza è considerata difficile o impossibile. Non sembrerebbe così a partire dalla ricerca che ho citato sopra. Sembrerebbe invece invece possibile trarre alcune indicazioni circa i fattori che possono facilitare o sostenere la “gestione della conoscenza”.
- Il primo è senza dubbio l'esistenza di quello che potrebbe essere definito un movimento per la gestione della conoscenza. Questo potrebbe essere individuato a due livelli: uno – caratterizzato da una maggiore consapevolezza – rappresentato dalle decine o centinaia di professionisti del KM che partecipano a reti al livello nazionale e internazionale, l'altro – meno consapevole, ma non meno rilevante – si incarna nell'uso diffuso degli strumenti elettronici di condivisione della conoscenza e dell'informazione (dai blog, alle reti).
- Il secondo è costituito dalla possibilità di determinare un insieme di fattori di ostacolo da rimuovere, come, per esempio: l'autoreferenzialità delle organizzazioni, la mancanza di consapevolezza circa il proprio patrimonio di conoscenze, l'orientamento a riconoscere il proprio valore aggiunto in modo riduzionistico (per esempio nel fatturato o nel reddito generato), la tendenza a risolvere i problemi organizzativi attraverso l'intensificazione del lavoro, l'orientamento a non considerare le differenti dimensioni della professionalità dei lavoratori, la presenza di conflitti “non mediati” e di livelli bassi di fiducia, la mancata tematizzazione del tema della qualità, l'orientamento ad utilizzare forme di gestione fondate unicamente sulla gerarchia e la formalità o – al contrario – sull'informalità e sull'occultamento delle gerarchie; la rappresentazione dei problemi soltanto in termini di emergenza;
- il terzo è costituito dalla possibilità di identificare alcuni fattori di facilitazione che possono essere per così dire “amplificati”, come – per esempio: il contatto con esperienze di successo e best practices; l'interesse della leadership; l'orientamento a valorizzare le risorse umane disponibili; la sensibilità al tema della conoscenza; l'esistenza di condizioni di crisi che rendono evidente la necessità di nuove soluzioni; l'orientamento a identificare soluzioni strutturali, piuttosto che a lasciare la responsabilità della soluzione dei problemi agli individui; la consapevolezza del fatto che l'organizzazione non è in grado di valorizzare tutta la sua esperienza, la presenza di processi di mutamento organizzativo;
- il quarto infine consiste nella possibilità di adottare alcune specifiche modalità di formazione, quali un'analisi dei fabbisogni formativi che non si limiti all'identificazione dei gap di competenze e capacità; il riferimento a “pacchetti” di principi e strumenti teorici e metodologici che siano fondati su un approccio multidimensionale alla conoscenza e sul superamento delle “soluzioni tecnologiche” monodimensionali; l'effettiva considerazione nei processi di formazione della dimensione collettiva della conoscenza, attraverso il sostegno alla creazione o alla partecipazione a network.

sabato 17 maggio 2008

Interventi urbani

Fannulloni e nullafacenti. La PA e il settore privato

Qualche giorno fa, con la nomina del nuovo ministro della funzione pubblica, è stata riavviata la polemica sulla presenza di fannulloni, nullafacenti e assenteisti nelle amministrazioni pubbliche italiane, nonché sulla opportunità e la necessità di licenziarli per consentire alla PA di svolgere adeguatamente il suo ruolo. Secondo il ministro (ma non soltanto per lui) nella PA sono presenti tassi di assenteismo doppi rispetto al privato e l'unico ragione per cui essa, nonostante questo, ancora non sia “fallita” è che non è in condizione di concorrenza con il privato. Oltre al licenziamento dei fannulloni, quindi, una seconda prescrizione per guarire i problema di una PA ammalata è la concorrenza. C'è anche una terza ricetta: l'eliminazione della carta e la digitalizzazione, aumentando la trasparenza.
Tre soluzioni con cui, sulla carta, tutti sono da molto tempo d'accordo: è dagli anni '80 che in tutto il mondo si è proposto l'approccio del New Public Management che tende ad inserire nelle amministrazioni pubbliche principi di gestione tratti dall'esperienza del settore privato e principi di mercato e di concorrenza; è da almeno un decennio che si annuncia l'introduzione delle tecnologie dell'informazione, e – forse in Italia più che altrove - è da anni che si parla di meritocrazia. Tuttavia, anche se molte cose sono cambiate, le questioni restano e le tre vie indicate dal ministro sono state percorse con scarsa efficacia.
Forse allora, si dovrebbe pensare che i “problemi” reali e le vere soluzioni siano altrove (per esempio, in quello che il Ministro Brunetta considera un mistero o una stranezza dovuta all'amor proprio di alcuni individui, cioè il fatto che nonostante i nullafacenti le PA sono piene di persone di grande qualità e che svolgono il loro lavoro con dedizione).
Prima di cercare di comprendere le ragioni di questo mistero, si dovrebbe però riflettere su un fatto molto semplice: ci sono differenze non eliminabili tra il settore privato e l'amministrazione pubblica che fanno sì che trasferimenti non mediati di tecnologie, approcci e strumenti di gestione non abbiano successo e che rendono l'idea della concorrenza nel migliore dei casi, nel peggiore nociva. Non è un caso che nei paesi in cui il “New Public Management” è stato introdotto con maggiore forza (e con maggiore efficacia) – come il Regno Unito, l'Australia, il Canada e la Nuova Zelanda - non se ne parli più e si stiano cercando correttivi per riparare i danni che un eccessivo riferimento al mercato e al settore privato hanno provocato.
Una prima differenza riguarda la natura e lo scopo della pubblica amministrazione: essa non deve soltanto prestare servizi, quanto soprattutto deve garantire l'esercizio dei diritti dei cittadini e il governo della realtà. Questo vuol dire, che essa deve soddisfare esigenze che non possono essere considerate agevolmente nella concorrenza con il settore privato (per esempio, quelle di “innovazione” e qualità sociale: non è un caso che l'introduzione del sistema dei “vaucher formativi” in paesi tanto diversi quanto il Canada, l'Australia e il Brasile abbia avuto come primo risultato una riduzione dell'innovazione nella formazione).
Una seconda differenza riguarda i soggetti coinvolti. Nonostante il fatto che anche per le imprese si sia parlato di una pluralità di stakeholders, che comprendono non soltanto gli imprenditori stessi, ma anche lavoratori, fornitori, clienti, ecc. (paradossalmente, in questo caso è il settore privato che, con successo, ha assunto elementi provenienti dall'esperienza del settore pubblico), per le pubbliche amministrazione questi soggetti sono in maggior numero, maggiormente diversificati e – soprattutto – con ruoli che non sempre sono semplici da distinguere: i cittadini non sono soltanto utenti o clienti dei servizi, essi ne sono i “proprietari” (e che cosa sono i funzionari? e i politici, ai diversi livelli? e così via..). Inoltre, mentre in un'impresa gli interessi dei soggetti coinvolti tendono a convergere (o a divergere nel caso di conflitti, ma comunque devono fare i conti con quelli di un soggetto più o meno definito: l'imprenditore), nelle PA gli interessi sono assai diversificati e rispondo spesso a molti e diversi principi di legittimità (sociale e culturale, oltre che giuridica).
Un terzo elemento è costituito dallo stesso oggetto dell'attività nella PA. Anche assumendo un punto di vista molto astratto e tendenzialmente riduzionista, si tratta almeno della prestazione di servizi, della garanzia dell'esercizio dei diritti, del governo della realtà. Tre oggetti assai poco materiali, rispetto ai quali esistono diverse prospettive e diversi interessi. Questo non vuol dire che non sia possibile valutarne il conseguimento (come richiederebbe un sistema meritocratico), vuol dire però che farlo non è semplice come guardare il bilancio di un'impresa o la corretta esecuzione di un progetto industriale e che, soprattutto, non è sufficiente definire dall'alto qualche standard (a questo proposito vale la pena di ricordare l'esperienza delle “carte dei servizi”: in alcuni casi esse sono semplici fotografie della realtà attuale, in altre contengono obiettivi astratti, quasi mai soddisfano gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nell'uso dei servizi stessi).
Queste sono soltanto le prime e più evidenti differenze, via via che si scende nel concreto ne emergono molte altre (e se si vuole fare sul serio è necessario: uno dei problemi centrali dell'attuazione delle riforme nella PA italiana è stata la difficoltà del conseguire livelli adeguati di concretezza).

venerdì 16 maggio 2008

Nella capitale degli outlet: ancora sui modelli di città

Con la scusa del popolo

L'Italia s'è desta. Pogrom e sottosviluppo

Da alcuni giorni l'Italia s'è desta ed è diventata lo scenario di pogrom, di quelli classici - con l'attiva partecipazione della popolazione organizzata da un soggetto collettivo più o meno occulto - ad alcuni in parte nuovi, gestiti e organizzati dalle autorità pubbliche, per gestire il consenso della popolazione.
Non è un buon segno.
L'Italia è anche attraversata in questo stesso periodo da altri fenomeni: crisi della rappresentanza e della politica, crisi delle capacità economica, crisi del sistema educativo e di socializzazione dei giovani, stasi della ricerca scientifica e tecnologica, e così via.
In sostanza, una crisi dello sviluppo, assecondata e alimentata dalla politica, che rinuncia a osservare la "realtà" e rinuncia a politiche di sviluppo - che nel mondo attuale vuol dire anche politiche che sostengano la pluralità culturale, la produzione scientifica e le sue applicazioni, l'apertura delle economie (cfr. anche la passione internazionale intorno alle tesi di Florida).
Lo iato tra la politica e la realtà e l'allontanamento delle persone dalla realtà effettiva per cui vivono per ritirarsi in un mondo virtuale popolato di mostri (come quello delle fiabe infantili e dei miti delle origini) sono stati oggetto fino ad ora di ricerche piuttosto "tradizionali", che hanno guardato alla dimensione istituzionale e della rappesentanza, a quella delle organizzazioni, a quella economica e persino - in qualche caso - a un ritorno a tesi vecchie come quelle dell'utilitarismo.
Forse, invece, è ora di pensare a nuovi programmi di ricerca. Si tratta, per esempio, di capire dove hanno origine e come funzionano le emozioni, al livello collettivo e al livello individuale; come possono convivere orientamenti diversi e contraddittori; come la "pluralità" di fatto che caratterizza le nostre identità coesiste con le paure dell'alterità; come in un mondo sempre più globalizzato e apparentemente uniforme le alterità si alimentano.

mercoledì 14 maggio 2008

I re di Roma e i modelli urbani

Un'intervista a Vezio de Lucia in cui si discute della città di Roma e si riprendono alcune idee che negli ultimi anni sono state definite per guidare lo sviluppo delle città e gestire le aree urbane, ma che sembra siano state dimenticate: riconversione, ristrutturazione, gestione dello spazio, intensificazione, riuso, decentramento reale, città centripete e multicentriche, e così via.

Delegificazione?

Nonostante l’Istituto superiore di statistica e le prefetture abbiano pubblicato dati che mostrano come non sia in atto un’emergenza criminalità in Italia, questa continua ad essere il tema centrale dei titoli di prima pagina.

E continua ad essere anche il tema centrale della politica, e la questione su cui si incontrano il livello nazionale e quello locale. A volte producendo anche qualche paradosso. Ecco un piccolo esempio, dal sito di Repubblica (14 maggio 2008):

“ il responsabile del Viminale ha già iniziato a lavorare, annunciando importanti novità. Nel pomeriggio di ieri aveva incontrato il sindaco di Roma, mentre oggi è stata la volta di Letizia Moratti, primo cittadino di Milano. "Con Milano - ha detto il ministro al termine dell'incontro - è stato stipulato un patto per la 'Città sicura' che prevede molte norme" (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/sicurezza-politica-3/lavoro-dl-13mag/lavoro-dl-13mag.html)

Ma non basta, al ministro della giustizia è stata attribuita una delega a definire le norme per fare della “clandestinità” un reato (cosa che potrebbe avere come conseguenze quella di rallentare molto tutte le procedure che potrebbero portare all’espulsione dei clandestini e di produrre un nuovo ambito di attività per la giustizia penale).

E la de-legificazione? Sembrava ormai riconosciuto da tutti il fatto che in Italia ci fosse un eccesso di norme. Tanto assodato da creare un apposito ministero.

venerdì 9 maggio 2008

Paura e sicurezza a Roma

La prefettura di Roma ha reso note le variazioni relative alla ricorrenza di alcuni reati nel primo semestre 2008, rispetto all'anno precedente:

- borseggi - 52%
- scippi - 56%
- furti - 45%
- violenze sessuali - 50%

low cost

mercoledì 7 maggio 2008

Disastri

La paura non è un fenomeno solo italiano. In questi giorni ci sono due fenomeni che hanno sollevato allarme al livello internazionale: l'emergere di una nuova crisi alimentare e il ciclone che ha colpito la Birmania. Le risposte che molti - compreso il segretario delle Nazioni Unite - tendono a dare sono soprattutto orientate a ridurre i danni presenti: aiuti di emergenza (acqua, ripari, cibo, medicine) a Myanmar e nuove derrate di cereali contro la fame crescente (ci sono infatti previsioni di un buon raccolto in Ucraina!).
Soluzioni che non rendono conto della realtà.
Ormai da molti anni (un saggio di Amartya Sen sull'argomento data ai primi anni '70) si sa che la fame non deriva dalla mancanza di cibo, ma dalla impossibilità di accedervi per cause sociali, economiche, di gestione del territorio e così via. Cause che è difficile siano rimosse dalla semplice iniezione di nuovi prodotti sul mercato internazionale o in quello degli aiuti.
E da quasi altrettanto tempo - ma definitivamente dopo lo tsunami che ha interessato l'area dell'Oceano Indiano e gli uragani Mitch e Katrina - si è ben consapevoli che la vulnerabilità a cicloni e uragani è legata soltanto in una misura limitata a fattori naturali. Piuttosto, essa è generata e amplificata da processi e eventi sociali.
Non solo, ma lì dove le società civili sono deboli i disastri naturali tendono non soltanto a comportare più danni fisici, economici e sanitari, ma anche a favorire un ulteriore indebolimento dei legami sociali e una crisi delle stesse capacità di attivazione e di risposta sociale. Per evitare che questo accada nella già debole Myanmar forse serve anche qualcos'altro oltre a cibo, tende, acqua potabile e medicine.

La paura!

L'Istat: "Gli omicidi sono in caloma in Italia cresce la paura". Stamattina a Roma è stato presentato il rapporto dell'istituto di statistica In otto anni il numero di delitti è diminuito: dal 13,1 al 10,3 per milione di abitanti. La criminalità continua a preoccupare più della metà degli italiani (il 58,7%). Le altre fonti di angoscia sono la disoccupazione (70,1%) e la povertà (29,4%)

http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/istat-sicurezza/istat-sicurezza/istat-sicurezza.html

Forse allora la ragione della paura e del senso di insicurezza non è nella mancanza di sicurezza!