venerdì 17 ottobre 2008

Beni pubblici

Al di là del loro specifico merito, le decisioni del governo italiano nel corso degli ultimi mesi mettono in evidenza una questione: non c’è chiarezza e non c’è un punto di vista condiviso su quali siano i beni pubblici.

Come è evidente il governo sta annunciando – e in misura minore attuando effettivamente – un insieme di azioni riguardanti la spesa pubblica: in alcuni casi si tratta di tagli di spesa, in altri di investimenti e spese aggiuntive. A ben guardare i tagli riguardano quasi sempre quelli che potrebbero essere definiti i beni pubblici immateriali (servizi sociali, istruzione, ricerca, produzione culturale, protezione dell’ambiente sul lungo termine, ecc.) e verso le strutture pubbliche che in Italia curano questi beni.

Le spese aggiuntive sono rivolte invece, in gran parte, a sostenere le imprese private, pur senza modificare in modo strutturale nessuna delle condizioni per il loro funzionamento (non si promuove l'innovazione, non si agisce effettivamente sul rapporto tra imprese e PA, non si creano condizioni di trasparenza e responsabilità, e così via).Vale a dire, in altre parole, si sostengono, in un modo immediato, i fattori della ricchezza del paese secondo una visione “moderna” (cioè successiva alla scoperta dell’America) dell’economia. Fattori che vengono sostenuti secondo uno strano mix: le risorse pubbliche vengono trasferite ai privati - che poi non sono tenuti a restituirle se non in minima parte – e contribuiscono alla loro ricchezza privata.

Due casi possono essere menzionati come tipici: l’iniziativa volta a garantire l’Italianità dell’Alitalia, i discorsi (al momento sono soltanto tali) del presidente del consiglio sull’imperativo categorico di sostenere le imprese.Ma forse si dovrebbe considerare in questo contesto anche l'intervento di indebolimento dei servizi pubblici che potrebbe aprire o allargare il mercato interno di alcune imprese.

Sembrerebbe che non ci sia accorti del fatto che ormai l’Italia non si trova più in un contesto economico “moderno”. La “ricchezza delle nazioni” non si produce più secondo le formule di Adam Smith, la ricchezza finanziaria non è direttamente legata al lavoro, i flussi di capitali non si fermano in modo permanente su un territorio, la stessa ricchezza economica è sempre meno connessa ad asset materiali.

E sembrerebbe anche che non ci si sia accorti che dovunque nel mondo i beni pubblici strategici (come la ricerca, l’istruzione di massa e gli stessi servizi sociali) non sono stati delegati al settore privato senza produrre “tragedie nazionali” e senza richiedere poi – nel medio termine – incrementi enormi della spesa pubblica per limitare i problemi generati.

Certo non si può non cogliere una stranezza nel fatto che il governo non si sia accorto di tutto questo, visto che il presidente del consiglio ha fondato la sua ricchezza proprio su un bene immateriale come la produzione televisiva. Probabilmente però la stranezza è solo apparente. A ben guardare, infatti, ciò che si sostiene è la produzione visibile e immediata di risorse, secondo un paradigma per cui conta soltanto quello che si vede e che si può “mostrare” in televisione (magari grazie a una sapiente regia, che offra anche gli elementi per interpretare l’informazione che viene fornita).

Non è strano invece che si pensi all’Italia come a un’isola nella globalizzazione: la stessa vittoria elettorale potrebbe essere interpretata come il rifiuto di una parte importante della popolazione italiana a partecipare sul serio ai processi globali (le stesse decisioni di politica estera, orientate a sostenere alcuni "amici" piuttosto che a perseguire una politica di lungo termine, così come quelle riguardanti la gestione dei fenomeni migratori, sembrano esprimere una posizione di questo genere). Peccato soltanto che staccarsi dai processi globali non sia possibile.

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