venerdì 12 dicembre 2008
Conoscenza e sviluppo
Il Rwanda ha avviato un insieme di politiche fondate sul sostegno all'istruzione e alla ricerca. Ne parla Pietro Greco nell'articolo a cui si accede cliccando sul titolo di questo post. Un articolo interessante, sia perchè mette in evidenza come sia possibile parlare di Africa non soltanto in termini catastrofistici, sia perchè rende evidente il rapporto che c'è tra sviluppo sociale e crescita economica da un lato e crescita del capitale di conoscenza disponibile dall'altro.
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venerdì 5 dicembre 2008
10 categorie per pensare le città del XXI secolo
Il 3 e il 4 dicembre si è tenuto a Roma il convegno “Urbs 2008”, al centro del quale si trovava lo sguardo degli architetti sulle trasformazioni urbane e sulle politiche di gestione della città. Nonostante la presenza del sociologo Zygmund Bauman tra i main speakers, la maggior parte delle presentazioni avevano come punto di vista principale quello degli architetti o quello degli amministratori coinvolti in iniziative di trasformazione, recupero e ricostruzione di aree urbane.
Alcuni elementi interessanti, rispetto alla questione dello sviluppo urbano sostenibili, sono stati presentati dall'architetto spagnolo Vicente Guallart (www.Guallart.com). Si tratta in particolare di 8 categorie che dovrebbero guidare lo sviluppo delle città nel ventunesimo secolo. Non mi sembra che queste categorie costituiscano un sistema coerente (alcune presentano evidenti sovrapposizioni le une con le altre), nè un insieme di indicazioni totalmente condivisibili. Tuttavia, esse possono costituire uno stimolo per ripensare alla città e un elenco di problemi da non dimenticare.
1 - “Metaurbano”(metaurbanidad): la dimensione urbana non ha più a che vedere soltanto con la città nella sua forma tradizionale; nel mondo contemporaneo si deve render conto del fatto che la dimensione urbana spesso si trova in condizioni di assenza della “forma urbana” (es. America latina, Asia)
2 - “Sociale” (social) o, meglio, specificità sociale: città e quartieri non sono occupati da una categoria generale e indefinita di abitante o di persona, ma sono abitati e vissuti da persone concrete; non è quindi possibile guardare a un “formato” universale o a categorie progettuali valide per ogni occasione, ma si devono considere le domande e le esigenze esistenti nello specifico contesto delle donne e degli uomini che occupano/occuperanno gli insediamenti
3 - “Rurbano”: in misura crescente la dimensione urbana che si mescola con quella rurale, le città contemporanee non soltanto non sono più cinte da mura, ma spesso non sono neanche situate in uno spazio “confinato”; esse, piuttosto, incontrano terreni agricoli e paesaggi extraurbani e devono allo stesso tempo “occuparli” e “tutelarli”
4 - Autosuficienza: esiste una crescente necessità (rispetto alla quale esistono anche possibilità effettive) che gli insediamenti generino/rigenerino le risorse che usano, sia di carattere materiale che di carattere immateriale (acqua, alimenti, conoscenza, ...)
5 - Interazione: una dimensione fondamentale degli insediamenti è quella di spazi di interazione; lo spazio dovrebbe quindi essere progettato e gestito per favorire forme di interazione e integrazione sociale, anche attraverso una specifica attenzione alla dotazione di servizi e alla loro gestione quotidiana
6 - Energia: la crisi ambientale e quella relativa all'accesso alle fonti energetiche convenzionali rendono evidente la necessità che gli insediamenti generino l'energia che consumano; a differenza di quanto è avvenuto per tutto il secolo XX, in cui si è praticata una “delocalizzazione” della produzione energetica, si dovrebbero quindi esplorare le possibilità di produzione energetica in loco (es. solare e eolico integrati negli edifici)
7 - Qualità architettonica: una città effettivamente abitabile richiede edifici che siano di buona qualità, costruiti applicando ad ogni scala e non solo per gli edifici pubblici e monumentali una buona architettura e generando nuovo “patrimonio” (con le conseguenze che questo ha in termini di identificazione e integrazione degli spazi)
8 - Condivisione (compartir / sharing): nello spazio fisico è possibile perseguire una diminuzione della necessità di risorse, favorendone l'utilizzazione condivisa; questo richiede l'integrazione negli edifici e nei quartieri di spazi privati e spazi comuni dotati di servizi e attrezzature condivise (es. centri tecnologici, laboratori, lavanderie, ecc.)
9 - Digitalizzazione: la diffusione delle tecnologie digitali non può restare fuori dalla progettazione e dalla gestione degli insediamenti; la digitalizzazione può assumere una pluralità di forme da quella di “case intelligenti”, alla diffusione di reti a fibra ottica, dei sistemi wi-fi e di reti locali
10 - Autosufficienza e autogestione; architettura e urbanistica hanno spesso fatto a meno di pensare ai costi e alla dimensione economica come una dimensione rilevante, esiste invece la necessità di pensare a come creare quartieri e edifici che siano economicamente sostenibili e a come integrare attività economiche all'interno delle aree e dei luoghi di abitazione
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il senso comune queste categorie non rappresentano soltanto dei principi astratti, ma possono essere tradotte in indicazioni operative per la progettazione. Un esempio di questo sono alcune esperienze in atto in tutto il mondo, tra le quali quelle – in cui lo stesso Guallart è direttamente coinvolto – di “Sociopolis” e di alcuni nuovi quartieri di edilizia pubblica a Valencia.
Alcuni elementi interessanti, rispetto alla questione dello sviluppo urbano sostenibili, sono stati presentati dall'architetto spagnolo Vicente Guallart (www.Guallart.com). Si tratta in particolare di 8 categorie che dovrebbero guidare lo sviluppo delle città nel ventunesimo secolo. Non mi sembra che queste categorie costituiscano un sistema coerente (alcune presentano evidenti sovrapposizioni le une con le altre), nè un insieme di indicazioni totalmente condivisibili. Tuttavia, esse possono costituire uno stimolo per ripensare alla città e un elenco di problemi da non dimenticare.
1 - “Metaurbano”(metaurbanidad): la dimensione urbana non ha più a che vedere soltanto con la città nella sua forma tradizionale; nel mondo contemporaneo si deve render conto del fatto che la dimensione urbana spesso si trova in condizioni di assenza della “forma urbana” (es. America latina, Asia)
2 - “Sociale” (social) o, meglio, specificità sociale: città e quartieri non sono occupati da una categoria generale e indefinita di abitante o di persona, ma sono abitati e vissuti da persone concrete; non è quindi possibile guardare a un “formato” universale o a categorie progettuali valide per ogni occasione, ma si devono considere le domande e le esigenze esistenti nello specifico contesto delle donne e degli uomini che occupano/occuperanno gli insediamenti
3 - “Rurbano”: in misura crescente la dimensione urbana che si mescola con quella rurale, le città contemporanee non soltanto non sono più cinte da mura, ma spesso non sono neanche situate in uno spazio “confinato”; esse, piuttosto, incontrano terreni agricoli e paesaggi extraurbani e devono allo stesso tempo “occuparli” e “tutelarli”
4 - Autosuficienza: esiste una crescente necessità (rispetto alla quale esistono anche possibilità effettive) che gli insediamenti generino/rigenerino le risorse che usano, sia di carattere materiale che di carattere immateriale (acqua, alimenti, conoscenza, ...)
5 - Interazione: una dimensione fondamentale degli insediamenti è quella di spazi di interazione; lo spazio dovrebbe quindi essere progettato e gestito per favorire forme di interazione e integrazione sociale, anche attraverso una specifica attenzione alla dotazione di servizi e alla loro gestione quotidiana
6 - Energia: la crisi ambientale e quella relativa all'accesso alle fonti energetiche convenzionali rendono evidente la necessità che gli insediamenti generino l'energia che consumano; a differenza di quanto è avvenuto per tutto il secolo XX, in cui si è praticata una “delocalizzazione” della produzione energetica, si dovrebbero quindi esplorare le possibilità di produzione energetica in loco (es. solare e eolico integrati negli edifici)
7 - Qualità architettonica: una città effettivamente abitabile richiede edifici che siano di buona qualità, costruiti applicando ad ogni scala e non solo per gli edifici pubblici e monumentali una buona architettura e generando nuovo “patrimonio” (con le conseguenze che questo ha in termini di identificazione e integrazione degli spazi)
8 - Condivisione (compartir / sharing): nello spazio fisico è possibile perseguire una diminuzione della necessità di risorse, favorendone l'utilizzazione condivisa; questo richiede l'integrazione negli edifici e nei quartieri di spazi privati e spazi comuni dotati di servizi e attrezzature condivise (es. centri tecnologici, laboratori, lavanderie, ecc.)
9 - Digitalizzazione: la diffusione delle tecnologie digitali non può restare fuori dalla progettazione e dalla gestione degli insediamenti; la digitalizzazione può assumere una pluralità di forme da quella di “case intelligenti”, alla diffusione di reti a fibra ottica, dei sistemi wi-fi e di reti locali
10 - Autosufficienza e autogestione; architettura e urbanistica hanno spesso fatto a meno di pensare ai costi e alla dimensione economica come una dimensione rilevante, esiste invece la necessità di pensare a come creare quartieri e edifici che siano economicamente sostenibili e a come integrare attività economiche all'interno delle aree e dei luoghi di abitazione
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il senso comune queste categorie non rappresentano soltanto dei principi astratti, ma possono essere tradotte in indicazioni operative per la progettazione. Un esempio di questo sono alcune esperienze in atto in tutto il mondo, tra le quali quelle – in cui lo stesso Guallart è direttamente coinvolto – di “Sociopolis” e di alcuni nuovi quartieri di edilizia pubblica a Valencia.
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venerdì 21 novembre 2008
Sviluppo urbano sostenibile
Nel 1996, nel Summit sugli insediamenti umani di Istambul, finalmente, la lunga tradizione che vedeva nella città tutto il male della modernità ha subito un serio colpo. Nelle organizzazioni internazionali, negli enti di ricerca e persino tra le organizzazioni della società civile si è in quel momento riconosciuta, forse per la prima volta, la positività dell’esperienza urbana moderna e il fatto che le città erano anche lo scenario in cui avvenivano processi legati alla mobilità sociale, alla lotta alla malattie o alla tutela dei diritti.
Dopo oltre 10 anni, sebbene la maggior parte della popolazione del pianeta sia urbana o stia urbanizzandosi, una visione positiva della città appare meno scontata e meno diffusa.
Da un lato, si sono rafforzati alcuni degli attori che nella modernità vedono un regno diabolico, caratterizzato dal relativismo e dalla crisi dei valori (ma nessuno ricorda più che i valori sono determinati socialmente e non ce ne sono di universali nel tempo e nello spazio?). Dall’altro, sono emersi con maggiore evidenza i problemi dello sviluppo sostenibile e degli stessi processi di sviluppo sociale ed economico che erano in una certa misura dati per scontati alla metà del decennio passato. Questo ha comportato, se non un ripensamento circa il ruolo delle città, almeno il fatto che fosse prestata una minore attenzione ai processi di sviluppo che le riguardano.
Riprendere con maggiore intensità la ricerca urbana sembrerebbe quindi una questione rilevante non soltanto dal punto di vista accademico. La ricerca appare un’esigenza non eliminabile per migliorare la gestione delle aree in cui vive più della metà della popolazione del pianeta. Potrebbero essere identificate 4 aree o quattro percorsi sui quali la ricerca appare particolarmente urgente.
La vivibilità urbana
La prima area di fenomeni può essere definita a partire dalla categoria di vivibilità urbana, che potrebbe in una certa misura essere considerato il prodotto dei venti anni di riflessione e di ricerca che, al livello internazionale, hanno seguito le prime formulazioni del concetto e delle teorie della sostenibilità. Quest’area ha al suo centro la capacità di una città di mantenere in modo dinamico nel tempo condizioni tali da creare e alimentare spazi e insediamenti, che offrano un’alta (o quantomeno adeguata) qualità di vita, con la capacità di rimanere efficienti sul lungo termine, in quanto strutture adatte all’interazione sociale, alla comunicazione e allo sviluppo culturale.
Alla vivibilità urbana non contribuisce quindi soltanto il mantenimento delle risorse ambientali (acqua, aria, suolo, ecc.), ma anche la capacità di accoglienza e integrazione di una popolazione sempre più eterogenea, la generazione di una partecipazione allargata al governo urbano e una adeguata governance dei processi in atto, la presenza e il mantenimento di iniziative di investimento e reinvestimento economico, la dinamicità della produzione scientifica, tecnologica e culturale, nonché quali sono i benefici e i costi dell’agglomerazione urbana.
I diritti alla città
Una seconda dimensione rilevante riguarda il rapporto esistente tra i processi di sviluppo urbano e l’affermazione dei diritti dei cittadini.
Nella Agenda stabilita nel Summit sugli insediamenti urbani di Istanbul era stato affermato il principio di un conseguimento progressivo del diritto a un alloggio adeguato. Si dovrebbe, quindi, cercare di capire come e in che misura tale diritto (che può essere facilmente ri-definito nei dermini di un diritto alla vivibilità urbana) sia stato reso effettivo.
In questo quadro, in particolare, ci si concentrerà sulle modalità attraverso le quali i diritti alla città sono stati definiti e messi in atto, sui fattori di ostacolo incontrati nell’esercizio di tali diritti e sui fattori che invece ne hanno sostenuto l’applicazione.
Le opzioni per il governo urbano
Un’altra dimensione dello sviluppo sostenibile può essere identificata in relazione alle opzioni possibili per la governance delle città in funzione del conseguimento di una maggiore sostenibilità. Tali opzioni possono essere individuate rispetto ai diversi livelli territoriali e ai diversi attori identificati nel contesto dei processi che interessano la città.
Si tratta, quindi, di individuare linee guida relative a opportunità e possibilità di azione al livello micro (zone interne alle città), al livello meso (il governo delle singole città) e al livello macro (la dimensione nazionale, regionale e globale).
In questo quadro appaiono rilevanti anche i processi di aggregazione tra città diverse, sia nell’ambito di uno stesso contesto geografico (reti regionali), sia nell’ambito globale e in funzione di altri tipi di legami (vincoli economici e commerciali, vincoli culturali, caratteristiche strutturali, ecc.).
Infine, in questo ambito si adotterà anche una prospettiva comparativa, cercando di mettere a confronto le indicazioni emergenti dalle esperienze dei paesi che nel corso dell’ultimo decennio hanno acquisito le più rapide dinamiche di crescita economica (e in parte di sviluppo sociale) con le necessità e le opportunità presenti in paesi caratterizzati da una minore dinamicità dei processi di sviluppo.
Le opzioni e i processi di innovazione tecnologica
Un’ultima prospettiva rilevante è relativa ai processi di innovazione tecnologica. A questo proposito appaiono rilevanti i processi e le opportunità in corso secondo due punti di vista complementari.
Il primo è quello relativo all’identificazione di opzioni tecnologiche appropriate rispetto ai problemi della sostenibilità e della vivibilità urbana (efficacia delle tecnologie).
Il secondo potrebbe essere orientato a prendere in esame i processi di innovazione in senso stretto, considerando in particolare tre insiemi di dinamiche:
- l’interazione tra i diversi soggetti coinvolti nello sviluppo e nell’applicazione delle tecnologie;
- la socializzazione delle innovazioni (vale a dire il fatto che attorno a un sistema di tecnologie si produca un sistema di conoscenze, rappresentazioni, norme e condizioni sociali che ne consente un effettivo trasferimento, in particolare tra mondo della ricerca e mondo delle imprese e/o policy-makers);
- le condizioni economiche e tecnologiche per l’introduzione delle nuove tecnologie.
Dopo oltre 10 anni, sebbene la maggior parte della popolazione del pianeta sia urbana o stia urbanizzandosi, una visione positiva della città appare meno scontata e meno diffusa.
Da un lato, si sono rafforzati alcuni degli attori che nella modernità vedono un regno diabolico, caratterizzato dal relativismo e dalla crisi dei valori (ma nessuno ricorda più che i valori sono determinati socialmente e non ce ne sono di universali nel tempo e nello spazio?). Dall’altro, sono emersi con maggiore evidenza i problemi dello sviluppo sostenibile e degli stessi processi di sviluppo sociale ed economico che erano in una certa misura dati per scontati alla metà del decennio passato. Questo ha comportato, se non un ripensamento circa il ruolo delle città, almeno il fatto che fosse prestata una minore attenzione ai processi di sviluppo che le riguardano.
Riprendere con maggiore intensità la ricerca urbana sembrerebbe quindi una questione rilevante non soltanto dal punto di vista accademico. La ricerca appare un’esigenza non eliminabile per migliorare la gestione delle aree in cui vive più della metà della popolazione del pianeta. Potrebbero essere identificate 4 aree o quattro percorsi sui quali la ricerca appare particolarmente urgente.
La vivibilità urbana
La prima area di fenomeni può essere definita a partire dalla categoria di vivibilità urbana, che potrebbe in una certa misura essere considerato il prodotto dei venti anni di riflessione e di ricerca che, al livello internazionale, hanno seguito le prime formulazioni del concetto e delle teorie della sostenibilità. Quest’area ha al suo centro la capacità di una città di mantenere in modo dinamico nel tempo condizioni tali da creare e alimentare spazi e insediamenti, che offrano un’alta (o quantomeno adeguata) qualità di vita, con la capacità di rimanere efficienti sul lungo termine, in quanto strutture adatte all’interazione sociale, alla comunicazione e allo sviluppo culturale.
Alla vivibilità urbana non contribuisce quindi soltanto il mantenimento delle risorse ambientali (acqua, aria, suolo, ecc.), ma anche la capacità di accoglienza e integrazione di una popolazione sempre più eterogenea, la generazione di una partecipazione allargata al governo urbano e una adeguata governance dei processi in atto, la presenza e il mantenimento di iniziative di investimento e reinvestimento economico, la dinamicità della produzione scientifica, tecnologica e culturale, nonché quali sono i benefici e i costi dell’agglomerazione urbana.
I diritti alla città
Una seconda dimensione rilevante riguarda il rapporto esistente tra i processi di sviluppo urbano e l’affermazione dei diritti dei cittadini.
Nella Agenda stabilita nel Summit sugli insediamenti urbani di Istanbul era stato affermato il principio di un conseguimento progressivo del diritto a un alloggio adeguato. Si dovrebbe, quindi, cercare di capire come e in che misura tale diritto (che può essere facilmente ri-definito nei dermini di un diritto alla vivibilità urbana) sia stato reso effettivo.
In questo quadro, in particolare, ci si concentrerà sulle modalità attraverso le quali i diritti alla città sono stati definiti e messi in atto, sui fattori di ostacolo incontrati nell’esercizio di tali diritti e sui fattori che invece ne hanno sostenuto l’applicazione.
Le opzioni per il governo urbano
Un’altra dimensione dello sviluppo sostenibile può essere identificata in relazione alle opzioni possibili per la governance delle città in funzione del conseguimento di una maggiore sostenibilità. Tali opzioni possono essere individuate rispetto ai diversi livelli territoriali e ai diversi attori identificati nel contesto dei processi che interessano la città.
Si tratta, quindi, di individuare linee guida relative a opportunità e possibilità di azione al livello micro (zone interne alle città), al livello meso (il governo delle singole città) e al livello macro (la dimensione nazionale, regionale e globale).
In questo quadro appaiono rilevanti anche i processi di aggregazione tra città diverse, sia nell’ambito di uno stesso contesto geografico (reti regionali), sia nell’ambito globale e in funzione di altri tipi di legami (vincoli economici e commerciali, vincoli culturali, caratteristiche strutturali, ecc.).
Infine, in questo ambito si adotterà anche una prospettiva comparativa, cercando di mettere a confronto le indicazioni emergenti dalle esperienze dei paesi che nel corso dell’ultimo decennio hanno acquisito le più rapide dinamiche di crescita economica (e in parte di sviluppo sociale) con le necessità e le opportunità presenti in paesi caratterizzati da una minore dinamicità dei processi di sviluppo.
Le opzioni e i processi di innovazione tecnologica
Un’ultima prospettiva rilevante è relativa ai processi di innovazione tecnologica. A questo proposito appaiono rilevanti i processi e le opportunità in corso secondo due punti di vista complementari.
Il primo è quello relativo all’identificazione di opzioni tecnologiche appropriate rispetto ai problemi della sostenibilità e della vivibilità urbana (efficacia delle tecnologie).
Il secondo potrebbe essere orientato a prendere in esame i processi di innovazione in senso stretto, considerando in particolare tre insiemi di dinamiche:
- l’interazione tra i diversi soggetti coinvolti nello sviluppo e nell’applicazione delle tecnologie;
- la socializzazione delle innovazioni (vale a dire il fatto che attorno a un sistema di tecnologie si produca un sistema di conoscenze, rappresentazioni, norme e condizioni sociali che ne consente un effettivo trasferimento, in particolare tra mondo della ricerca e mondo delle imprese e/o policy-makers);
- le condizioni economiche e tecnologiche per l’introduzione delle nuove tecnologie.
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lunedì 10 novembre 2008
Nairobi
Qualche foto dopo una breve missione a Nairobi.
In questi giorni la città era piena di eccitazione per l'elezione di Barak Obama, ma era anche l'ospite del summit africano sul conflitto in Congo e piena di altri eventi internazionali. Al contrario di quanto potrebbe suggerire un certo senso comune sulle città africane, Nairobi è sempre stata una città molto movimentata e indaffarata, piena di traffico, di industrie e di banche, di enti internazionali e con una società civile attiva e diversificata.
Negli ultimi anni però sono avvenuti alcuni cambiamenti che sono stati quasi occultati dall'attenzione prevalente verso le catastrofi africane: in pochi anni è avvenuta una vera e propria rivoluzione politica, che ha comportato trasformazioni importanti nel funzionamento delle istituzioni e nel loro rapporto con la società e che ha anche permesso di intraprendere percorsi inediti nelle politiche urbane. Anche se con problemi che sono rimasti irrisolti, con lentezze, con fenomeni di blocco e con il permanere di squilibri, a Nairobi questo ha favorito una diminuzione almeno relativa della sensazione di paura che era diffusa anche solo pochi anni fa.
Nei prossimi giorni, a commento di queste foto vorrei scrivere due post: uno su scienza, tecnologia e innovazione, l'altro su alcune questioni connesse alla possibilità di conseguire lo sviluppo urbano sostenibile.
mercoledì 29 ottobre 2008
Diamo la caccia al gattopardo!
No, non propongo di andare a fare un safari al Kruger Park.
Si tratta, invece, di prendere sul serio la necessità di migliorare la qualità della scuola italiana, e di dare avvio ad azioni concrete. Penso che questo sia in questo momento l’unico modo efficace di evitare la catastrofe che potrebbe portare con sé il decreto Gelmini, ormai legge. E di quelle altre che potrebbero essere comportate dall’approvazione della Legge Aprea.
La catastrofe che può essere provocata da queste leggi non è soltanto nella riduzione delle risorse, nella diminuzione del numero di insegnanti, nel fatto che le ore di insegnamento diminuiscono o nel fatto che i “privati” accedano al governo e al finanziamento delle scuole. E’ anche nella possibilità che nulla accada: che non si lavori al miglioramento della qualità, che la responsabilità dei diversi soggetti coinvolti non aumenti, che gli stessi privati che si vogliono coinvolgere si mantengano lontani dalle istituzioni scolastiche (d’altra parte, se volessero partecipare al miglioramento delle scuole, non sarebbe poi così difficile neanche ora: le scuole – come gli altri enti pubblici - possono promuovere già iniziative in partnership con enti privati).
Il finto mutamento, quello del Gattopardo, è forse il maggior pericolo che corriamo: cambia tutto, ma la qualità non migliora, anzi peggiora ma nessuno ne parla più perché non è più in agenda: non i politici (ormai la legge è fatta), non i giornalisti (non si parla di ciò che non si vede: parlare di qualità è parlare di qualcosa invisibile), non i sindacati (magari il governo troverà il modo di “non licenziare”, ma senza qualificare la scuola) e neanche i genitori e gli studenti (perché un modo per adattarsi in Italia si trova sempre).
Una possibilità per promuovere il mutamento potrebbe essere quella di mobilitarsi per dimostrare che la “qualità” è possibile. Si può far riferimento a esperienze che nel corso degli ultimi due decenni sono state attuate in molti paesi del mondo in diversi settori, da quello dei servizi urbani a quello della sanità.
Un modo per farlo potrebbe essere tradotto in una procedura come la seguente:
- l’identificazione dei problemi esistenti, attraverso la consultazione di tutti i soggetti coinvolti (docenti, genitori, studenti, tecnici, amministrativi, dirigenti);
- l’identificazione delle modalità attraverso le quali in altre situazioni, in Italia e in altri paesi, i problemi sono stati affrontati e risolti;
- la definizione, con il consenso di tutte le parti in causa, di proposte di soluzione basate sulle esperienze precedenti;
- la realizzazione effettiva delle proposte, in un tempo limitato, a titolo sperimentale;
- il monitoraggio e la registrazione di ciò che accade;
- l’assunzione di una decisione, ancora una volta compartita, rispetto alla possibilità di trasformare la modalità di gestione sperimentata in una forma permanente di gestione dei servizi.
Si tratta, invece, di prendere sul serio la necessità di migliorare la qualità della scuola italiana, e di dare avvio ad azioni concrete. Penso che questo sia in questo momento l’unico modo efficace di evitare la catastrofe che potrebbe portare con sé il decreto Gelmini, ormai legge. E di quelle altre che potrebbero essere comportate dall’approvazione della Legge Aprea.
La catastrofe che può essere provocata da queste leggi non è soltanto nella riduzione delle risorse, nella diminuzione del numero di insegnanti, nel fatto che le ore di insegnamento diminuiscono o nel fatto che i “privati” accedano al governo e al finanziamento delle scuole. E’ anche nella possibilità che nulla accada: che non si lavori al miglioramento della qualità, che la responsabilità dei diversi soggetti coinvolti non aumenti, che gli stessi privati che si vogliono coinvolgere si mantengano lontani dalle istituzioni scolastiche (d’altra parte, se volessero partecipare al miglioramento delle scuole, non sarebbe poi così difficile neanche ora: le scuole – come gli altri enti pubblici - possono promuovere già iniziative in partnership con enti privati).
Il finto mutamento, quello del Gattopardo, è forse il maggior pericolo che corriamo: cambia tutto, ma la qualità non migliora, anzi peggiora ma nessuno ne parla più perché non è più in agenda: non i politici (ormai la legge è fatta), non i giornalisti (non si parla di ciò che non si vede: parlare di qualità è parlare di qualcosa invisibile), non i sindacati (magari il governo troverà il modo di “non licenziare”, ma senza qualificare la scuola) e neanche i genitori e gli studenti (perché un modo per adattarsi in Italia si trova sempre).
Una possibilità per promuovere il mutamento potrebbe essere quella di mobilitarsi per dimostrare che la “qualità” è possibile. Si può far riferimento a esperienze che nel corso degli ultimi due decenni sono state attuate in molti paesi del mondo in diversi settori, da quello dei servizi urbani a quello della sanità.
Un modo per farlo potrebbe essere tradotto in una procedura come la seguente:
- l’identificazione dei problemi esistenti, attraverso la consultazione di tutti i soggetti coinvolti (docenti, genitori, studenti, tecnici, amministrativi, dirigenti);
- l’identificazione delle modalità attraverso le quali in altre situazioni, in Italia e in altri paesi, i problemi sono stati affrontati e risolti;
- la definizione, con il consenso di tutte le parti in causa, di proposte di soluzione basate sulle esperienze precedenti;
- la realizzazione effettiva delle proposte, in un tempo limitato, a titolo sperimentale;
- il monitoraggio e la registrazione di ciò che accade;
- l’assunzione di una decisione, ancora una volta compartita, rispetto alla possibilità di trasformare la modalità di gestione sperimentata in una forma permanente di gestione dei servizi.
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Visibile e concreto
Come spesso accade nelle riforme italiane, anche nei mutamenti proposti dal Decreto Gelmini si trovano diversi orientamenti.
Uno è quello gattopardesco. Si propone un cambiamento che non cambia nulla nella realtà delle cose: se il problema è la bassa qualità dell’insegnamento è abbastanza evidente che tale bassa qualità non si migliora riducendo gli orari di insegnamento, le opportunità di collaborazione tra i docenti, la formazione richiesta ai docenti stessi e le risorse di cui essi dispongono. Una scuola caratterizzata dalla mancanza di standard di qualità continua a esserne priva; una scuola in cui un problema centrale è la mancanza di continuità didattica continua a non rendere “definitivi” gli insegnanti; una scuola in cui non esiste nessun effettivo sistema di selezione degli insegnanti continua ad esser priva di strumenti di selezione e di valutazione.
Un secondo orientamento è quello di proporre modifiche che sembrano concrete, ma che sono nella realtà astratte, con una evidente confusione tra “visibilità” e concretezza.
I tagli al bilancio, la diminuzione del numero complessivo degli insegnanti, la istituzione della “maestra prevalente” (secondo la nuova formulazione, che però “stranamente” non è stata riportata in nessun concreto emendamento al Decreto Gelmini) sono azioni visibili, ma rischiano di non essere azioni concrete. Di fatto, il Decreto non prevede tempi realistici di attuazione e tanto meno prevede una determinazione delle proposte tale da indirizzare realmente le norme attuative che dovranno essere definite. La stessa riduzione delle risorse disponibili rischia di essere visibile ma non concreta in un paese in cui la norma è quella di sfondare i tetti di spesa (e in cui il Presidente del Consiglio in carica è uno specialista nel produrre nuove spese, magari per rispondere in modo “visibile” a urgenze non considerate nella programmazione.
Un terzo orientamento che si può rilevare è quello che potrebbe essere definito “economicista”. Non è un caso che al decreto abbiano lavorato (forse più del Ministro Gelmini) i Ministri Brunetta e Tremonti: del secondo non c’è neanche bisogno di parlare (la finanza pubblica creativa per risolvere i problemi della crisi dello stato basta a definire il suo approccio), del secondo forse occorre considerare il fatto che le sue proposte sembrano fondate su un approccio all’economia del lavoro sviluppato soprattutto in relazione alla produzione industriale di tipo tradizionale, in cui conoscenze, orientamenti e, più in generale, tutto ciò che non si vede non contano.
Peccato che la scuola e i servizi pubblici siano ambiti nei quali gran parte dei fattori in gioco non si vedono: non è sufficiente che un impiegato pubblico sieda dietro la sua scrivania perché la macchina pubblica funzioni (anzi, negli ultimi due decenni abbiamo spesso osservato come, spesso, per far funzionare un apparato privo di risorse i funzionari abbiano spesso dovuto uscire dai loro uffici, andando direttamente a incontrarne altri, sorpassando le catene burocratiche e gerarchiche o andando a “vedere” cosa avviene realmente nel territorio), così come non basta che un professore lavori nell’orario scolastico: ci si mai chiesti come e quando si preparano le lezioni o come e quando si correggono i lavori degli studenti? O si pensa che si possa fare tutto in classe, proprio come fanno i peggiori tra i professori delle scuole italiane che riducono la lezione alla lettura ad alta voce del libro di testo e alla “chiarificazione” degli eventuali punti del testo che non sono stati compresi dagli alunni?
Non è un caso che invece di iniziare a determinare standard relativi alla prestazione dei servizi si sia cominciato con azioni riguardanti il rispetto degli orari.
Dietro l’approccio adottato dal Decreto Gelmini c’è una conoscenza molto sommaria e una gran voglia di “visibilità”.
Forse allora a questa voglia di visibilità si potrebbe rispondere con la pratica della concretezza, che potrebbe essere fondata sulla realizzazione di iniziative di sperimentazione in cui i problemi realmente esistenti (e osservati da diversi punti di vista dai diversi soggetti presenti nella scuola) sono realmente affrontati alla ricerca di soluzioni praticabili e sostenibili.
Uno è quello gattopardesco. Si propone un cambiamento che non cambia nulla nella realtà delle cose: se il problema è la bassa qualità dell’insegnamento è abbastanza evidente che tale bassa qualità non si migliora riducendo gli orari di insegnamento, le opportunità di collaborazione tra i docenti, la formazione richiesta ai docenti stessi e le risorse di cui essi dispongono. Una scuola caratterizzata dalla mancanza di standard di qualità continua a esserne priva; una scuola in cui un problema centrale è la mancanza di continuità didattica continua a non rendere “definitivi” gli insegnanti; una scuola in cui non esiste nessun effettivo sistema di selezione degli insegnanti continua ad esser priva di strumenti di selezione e di valutazione.
Un secondo orientamento è quello di proporre modifiche che sembrano concrete, ma che sono nella realtà astratte, con una evidente confusione tra “visibilità” e concretezza.
I tagli al bilancio, la diminuzione del numero complessivo degli insegnanti, la istituzione della “maestra prevalente” (secondo la nuova formulazione, che però “stranamente” non è stata riportata in nessun concreto emendamento al Decreto Gelmini) sono azioni visibili, ma rischiano di non essere azioni concrete. Di fatto, il Decreto non prevede tempi realistici di attuazione e tanto meno prevede una determinazione delle proposte tale da indirizzare realmente le norme attuative che dovranno essere definite. La stessa riduzione delle risorse disponibili rischia di essere visibile ma non concreta in un paese in cui la norma è quella di sfondare i tetti di spesa (e in cui il Presidente del Consiglio in carica è uno specialista nel produrre nuove spese, magari per rispondere in modo “visibile” a urgenze non considerate nella programmazione.
Un terzo orientamento che si può rilevare è quello che potrebbe essere definito “economicista”. Non è un caso che al decreto abbiano lavorato (forse più del Ministro Gelmini) i Ministri Brunetta e Tremonti: del secondo non c’è neanche bisogno di parlare (la finanza pubblica creativa per risolvere i problemi della crisi dello stato basta a definire il suo approccio), del secondo forse occorre considerare il fatto che le sue proposte sembrano fondate su un approccio all’economia del lavoro sviluppato soprattutto in relazione alla produzione industriale di tipo tradizionale, in cui conoscenze, orientamenti e, più in generale, tutto ciò che non si vede non contano.
Peccato che la scuola e i servizi pubblici siano ambiti nei quali gran parte dei fattori in gioco non si vedono: non è sufficiente che un impiegato pubblico sieda dietro la sua scrivania perché la macchina pubblica funzioni (anzi, negli ultimi due decenni abbiamo spesso osservato come, spesso, per far funzionare un apparato privo di risorse i funzionari abbiano spesso dovuto uscire dai loro uffici, andando direttamente a incontrarne altri, sorpassando le catene burocratiche e gerarchiche o andando a “vedere” cosa avviene realmente nel territorio), così come non basta che un professore lavori nell’orario scolastico: ci si mai chiesti come e quando si preparano le lezioni o come e quando si correggono i lavori degli studenti? O si pensa che si possa fare tutto in classe, proprio come fanno i peggiori tra i professori delle scuole italiane che riducono la lezione alla lettura ad alta voce del libro di testo e alla “chiarificazione” degli eventuali punti del testo che non sono stati compresi dagli alunni?
Non è un caso che invece di iniziare a determinare standard relativi alla prestazione dei servizi si sia cominciato con azioni riguardanti il rispetto degli orari.
Dietro l’approccio adottato dal Decreto Gelmini c’è una conoscenza molto sommaria e una gran voglia di “visibilità”.
Forse allora a questa voglia di visibilità si potrebbe rispondere con la pratica della concretezza, che potrebbe essere fondata sulla realizzazione di iniziative di sperimentazione in cui i problemi realmente esistenti (e osservati da diversi punti di vista dai diversi soggetti presenti nella scuola) sono realmente affrontati alla ricerca di soluzioni praticabili e sostenibili.
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mercoledì 22 ottobre 2008
In nome della paura
Dal Manifesto, un'intervista al filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sulla paura, il diritto penale e le politiche della sicurezza. Il fenomeno del "populismo penale", che promuove il diritto minimo per i ricchi e i potenti, e un diritto repressivo per i poveri, i marginali e i «devianti».
martedì 21 ottobre 2008
Integrazione, assimilazione e scolarizzazione
In Italia è stato approvata una norma per l'istituzione di classi separate per gli studenti stranieri privi di conoscenze adeguate della lingua e della cultura italiana. L'obiettivo di queste classi è favorire l'apprendimento dell'Italiano, l'adesione ai "valori", ai principi e ai costumi italiani, nonchè il fatto che si assumano come riferimenti quelli alla storia e alle istituzioni italiane.
Qualche anno fa, e magari in un contesto internazionale, un progetto di questo genere sarebbe stato definito di "assimilazione" e non di integrazione.
E' buffo, ma gli italiani emigrati all'estero hanno spesso dovuto fare l'esperienza di classi di "integrazione" di questo genere. E sempre gli italiani si sono opposti a questo: le associazioni, gli individui e anche il governo italiano hanno sempre chiesto che agli emigrati che lasciavano l'Italia fosse permesso mantenere le proprie tradizioni, la propria lingua e anche i propri legami con la "nazione".
Ora, cosa per lo meno strana, quello che va bene per gli italiani all'estero non va bene per gli stranieri in Italia.
Non solo, ma i promotori della norma recentemente approvata si chiedono: ma dov'è lo scandalo, anche il Sole24Ore ci sostiene e ci racconta che in Francia ci sono classi così! (L. Martinelli, La Francia è un modello dagli anni 70, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2008/10/francia-modello-anni-70.shtml?uuid=c1471aea-9b6d-11dd-adcf-7695700521e1&DocRulesView=Libero&correlato ). Peccato che non si siano accorti, nè i promotori della norma, nè il colto giornalista, che in Francia le classi d'inserimento sono state istituite nel 1970, in un contesto un po' diverso e con conoscenze pedagogiche un po' differenti da quelle attuali. E peccato anche che non abbiano provato a vedere quanti sono gli studenti di queste classi in Francia e quanti dovrebbero essere in Italia: forse non sanno che la gran parte dei migranti in Francia sono francofoni e che esiste una comunità francofona internazionale. Ma è ben noto: a politici e giornalisti non viene richiesto di informarsi più di tanto, non hanno tempo!
Forse, per mancanza di tempo, non si sono accorti neanche del fatto che il resto dei paesi europei (quelli che hanno l'esperienza dell'immigrazione italiana) e gli stessi francesi si sono stupiti un po' della decisione italiana di ritornare indietro, sulle decisioni che altri hanno preso quarant'anni fa e considerano oramai superate.
Ma forse, semplicemente, il governo e molti parlamentari italiani sono rimasti a uno stadio un po' infantile - la ricerca immediata di soddisfazione a uno stimolo apparente - e ricercano le soluzioni nella propria infanzia: maestra unica, classi differenziali, migranti che venivano soltanto dal mezzogiorno (e magari erano anche un po' più colti dei loro compagni padani).....
Qualche anno fa, e magari in un contesto internazionale, un progetto di questo genere sarebbe stato definito di "assimilazione" e non di integrazione.
E' buffo, ma gli italiani emigrati all'estero hanno spesso dovuto fare l'esperienza di classi di "integrazione" di questo genere. E sempre gli italiani si sono opposti a questo: le associazioni, gli individui e anche il governo italiano hanno sempre chiesto che agli emigrati che lasciavano l'Italia fosse permesso mantenere le proprie tradizioni, la propria lingua e anche i propri legami con la "nazione".
Ora, cosa per lo meno strana, quello che va bene per gli italiani all'estero non va bene per gli stranieri in Italia.
Non solo, ma i promotori della norma recentemente approvata si chiedono: ma dov'è lo scandalo, anche il Sole24Ore ci sostiene e ci racconta che in Francia ci sono classi così! (L. Martinelli, La Francia è un modello dagli anni 70, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2008/10/francia-modello-anni-70.shtml?uuid=c1471aea-9b6d-11dd-adcf-7695700521e1&DocRulesView=Libero&correlato ). Peccato che non si siano accorti, nè i promotori della norma, nè il colto giornalista, che in Francia le classi d'inserimento sono state istituite nel 1970, in un contesto un po' diverso e con conoscenze pedagogiche un po' differenti da quelle attuali. E peccato anche che non abbiano provato a vedere quanti sono gli studenti di queste classi in Francia e quanti dovrebbero essere in Italia: forse non sanno che la gran parte dei migranti in Francia sono francofoni e che esiste una comunità francofona internazionale. Ma è ben noto: a politici e giornalisti non viene richiesto di informarsi più di tanto, non hanno tempo!
Forse, per mancanza di tempo, non si sono accorti neanche del fatto che il resto dei paesi europei (quelli che hanno l'esperienza dell'immigrazione italiana) e gli stessi francesi si sono stupiti un po' della decisione italiana di ritornare indietro, sulle decisioni che altri hanno preso quarant'anni fa e considerano oramai superate.
Ma forse, semplicemente, il governo e molti parlamentari italiani sono rimasti a uno stadio un po' infantile - la ricerca immediata di soddisfazione a uno stimolo apparente - e ricercano le soluzioni nella propria infanzia: maestra unica, classi differenziali, migranti che venivano soltanto dal mezzogiorno (e magari erano anche un po' più colti dei loro compagni padani).....
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lunedì 20 ottobre 2008
Ciò che qualcuno non ha capito
Un paio di giorni fa il Ministro degli interni Roberto Maroni ha messo in evidenza che Saviano non è il solo eroe nella lotta contro mafia e camorra, i veri eroi sono gli uomini delle forze di polizia e della magistratura e gli imprenditori che rifiutano di pagare il pizzo.
Tutto bene?
Non tanto: quello che Maroni (così come molti altri al suo fianco) non ha compreso è che mentre per alcuni la lotta alla criminalità è un dovere "professionale" e per altri è una "necessità", per altri assumere un punto di vista coinvolto e agire contro la criminalità non lo è.
E' il caso dei cittadini comuni, che per il fatto di non intervenire direttamente e personalmente contro la criminalità non si sentono di certo meno onesti o meno "per bene". Anzi, a volte pensano che, chi interviene troppo direttamente contro la criminalità - e quindi si fa "gli affari degli altri" - lo faccia soprattutto per mettersi in mostra o per cercare un guadagno personale.
Quello che forse Maroni non ha capito bene (a meno che non volesse semplicemente fare un discorso retorico) è che Roberto Saviano è importante perchè nessuno gli ha chiesto di assumere pubblicamente posizione contro la camorra, di scrivere un libro e cercare un editore (che poteva anche essere un fiasco), di continuare a parlare. Eppure lo ha fatto, come cittadino. Non come professionista e non perchè costretto dalle circostanze.
E quello che forse Maroni non ha compreso è che, fino a che i cittadini delle zone in cui mafia e camorra governano il territorio non assumono lo stesso punto di vista e lo stesso modo di agire di Saviano, la criminalità organizzata conserverà il suo potere e - come peraltro dimostrano più di 100 anni di stori - a ben poco servirà inviare polizia e militari a presidiare il territorio.
Tutto bene?
Non tanto: quello che Maroni (così come molti altri al suo fianco) non ha compreso è che mentre per alcuni la lotta alla criminalità è un dovere "professionale" e per altri è una "necessità", per altri assumere un punto di vista coinvolto e agire contro la criminalità non lo è.
E' il caso dei cittadini comuni, che per il fatto di non intervenire direttamente e personalmente contro la criminalità non si sentono di certo meno onesti o meno "per bene". Anzi, a volte pensano che, chi interviene troppo direttamente contro la criminalità - e quindi si fa "gli affari degli altri" - lo faccia soprattutto per mettersi in mostra o per cercare un guadagno personale.
Quello che forse Maroni non ha capito bene (a meno che non volesse semplicemente fare un discorso retorico) è che Roberto Saviano è importante perchè nessuno gli ha chiesto di assumere pubblicamente posizione contro la camorra, di scrivere un libro e cercare un editore (che poteva anche essere un fiasco), di continuare a parlare. Eppure lo ha fatto, come cittadino. Non come professionista e non perchè costretto dalle circostanze.
E quello che forse Maroni non ha compreso è che, fino a che i cittadini delle zone in cui mafia e camorra governano il territorio non assumono lo stesso punto di vista e lo stesso modo di agire di Saviano, la criminalità organizzata conserverà il suo potere e - come peraltro dimostrano più di 100 anni di stori - a ben poco servirà inviare polizia e militari a presidiare il territorio.
venerdì 17 ottobre 2008
Beni pubblici
Al di là del loro specifico merito, le decisioni del governo italiano nel corso degli ultimi mesi mettono in evidenza una questione: non c’è chiarezza e non c’è un punto di vista condiviso su quali siano i beni pubblici.
Come è evidente il governo sta annunciando – e in misura minore attuando effettivamente – un insieme di azioni riguardanti la spesa pubblica: in alcuni casi si tratta di tagli di spesa, in altri di investimenti e spese aggiuntive. A ben guardare i tagli riguardano quasi sempre quelli che potrebbero essere definiti i beni pubblici immateriali (servizi sociali, istruzione, ricerca, produzione culturale, protezione dell’ambiente sul lungo termine, ecc.) e verso le strutture pubbliche che in Italia curano questi beni.
Le spese aggiuntive sono rivolte invece, in gran parte, a sostenere le imprese private, pur senza modificare in modo strutturale nessuna delle condizioni per il loro funzionamento (non si promuove l'innovazione, non si agisce effettivamente sul rapporto tra imprese e PA, non si creano condizioni di trasparenza e responsabilità, e così via).Vale a dire, in altre parole, si sostengono, in un modo immediato, i fattori della ricchezza del paese secondo una visione “moderna” (cioè successiva alla scoperta dell’America) dell’economia. Fattori che vengono sostenuti secondo uno strano mix: le risorse pubbliche vengono trasferite ai privati - che poi non sono tenuti a restituirle se non in minima parte – e contribuiscono alla loro ricchezza privata.
Due casi possono essere menzionati come tipici: l’iniziativa volta a garantire l’Italianità dell’Alitalia, i discorsi (al momento sono soltanto tali) del presidente del consiglio sull’imperativo categorico di sostenere le imprese.Ma forse si dovrebbe considerare in questo contesto anche l'intervento di indebolimento dei servizi pubblici che potrebbe aprire o allargare il mercato interno di alcune imprese.
Sembrerebbe che non ci sia accorti del fatto che ormai l’Italia non si trova più in un contesto economico “moderno”. La “ricchezza delle nazioni” non si produce più secondo le formule di Adam Smith, la ricchezza finanziaria non è direttamente legata al lavoro, i flussi di capitali non si fermano in modo permanente su un territorio, la stessa ricchezza economica è sempre meno connessa ad asset materiali.
E sembrerebbe anche che non ci si sia accorti che dovunque nel mondo i beni pubblici strategici (come la ricerca, l’istruzione di massa e gli stessi servizi sociali) non sono stati delegati al settore privato senza produrre “tragedie nazionali” e senza richiedere poi – nel medio termine – incrementi enormi della spesa pubblica per limitare i problemi generati.
Certo non si può non cogliere una stranezza nel fatto che il governo non si sia accorto di tutto questo, visto che il presidente del consiglio ha fondato la sua ricchezza proprio su un bene immateriale come la produzione televisiva. Probabilmente però la stranezza è solo apparente. A ben guardare, infatti, ciò che si sostiene è la produzione visibile e immediata di risorse, secondo un paradigma per cui conta soltanto quello che si vede e che si può “mostrare” in televisione (magari grazie a una sapiente regia, che offra anche gli elementi per interpretare l’informazione che viene fornita).
Non è strano invece che si pensi all’Italia come a un’isola nella globalizzazione: la stessa vittoria elettorale potrebbe essere interpretata come il rifiuto di una parte importante della popolazione italiana a partecipare sul serio ai processi globali (le stesse decisioni di politica estera, orientate a sostenere alcuni "amici" piuttosto che a perseguire una politica di lungo termine, così come quelle riguardanti la gestione dei fenomeni migratori, sembrano esprimere una posizione di questo genere). Peccato soltanto che staccarsi dai processi globali non sia possibile.
Come è evidente il governo sta annunciando – e in misura minore attuando effettivamente – un insieme di azioni riguardanti la spesa pubblica: in alcuni casi si tratta di tagli di spesa, in altri di investimenti e spese aggiuntive. A ben guardare i tagli riguardano quasi sempre quelli che potrebbero essere definiti i beni pubblici immateriali (servizi sociali, istruzione, ricerca, produzione culturale, protezione dell’ambiente sul lungo termine, ecc.) e verso le strutture pubbliche che in Italia curano questi beni.
Le spese aggiuntive sono rivolte invece, in gran parte, a sostenere le imprese private, pur senza modificare in modo strutturale nessuna delle condizioni per il loro funzionamento (non si promuove l'innovazione, non si agisce effettivamente sul rapporto tra imprese e PA, non si creano condizioni di trasparenza e responsabilità, e così via).Vale a dire, in altre parole, si sostengono, in un modo immediato, i fattori della ricchezza del paese secondo una visione “moderna” (cioè successiva alla scoperta dell’America) dell’economia. Fattori che vengono sostenuti secondo uno strano mix: le risorse pubbliche vengono trasferite ai privati - che poi non sono tenuti a restituirle se non in minima parte – e contribuiscono alla loro ricchezza privata.
Due casi possono essere menzionati come tipici: l’iniziativa volta a garantire l’Italianità dell’Alitalia, i discorsi (al momento sono soltanto tali) del presidente del consiglio sull’imperativo categorico di sostenere le imprese.Ma forse si dovrebbe considerare in questo contesto anche l'intervento di indebolimento dei servizi pubblici che potrebbe aprire o allargare il mercato interno di alcune imprese.
Sembrerebbe che non ci sia accorti del fatto che ormai l’Italia non si trova più in un contesto economico “moderno”. La “ricchezza delle nazioni” non si produce più secondo le formule di Adam Smith, la ricchezza finanziaria non è direttamente legata al lavoro, i flussi di capitali non si fermano in modo permanente su un territorio, la stessa ricchezza economica è sempre meno connessa ad asset materiali.
E sembrerebbe anche che non ci si sia accorti che dovunque nel mondo i beni pubblici strategici (come la ricerca, l’istruzione di massa e gli stessi servizi sociali) non sono stati delegati al settore privato senza produrre “tragedie nazionali” e senza richiedere poi – nel medio termine – incrementi enormi della spesa pubblica per limitare i problemi generati.
Certo non si può non cogliere una stranezza nel fatto che il governo non si sia accorto di tutto questo, visto che il presidente del consiglio ha fondato la sua ricchezza proprio su un bene immateriale come la produzione televisiva. Probabilmente però la stranezza è solo apparente. A ben guardare, infatti, ciò che si sostiene è la produzione visibile e immediata di risorse, secondo un paradigma per cui conta soltanto quello che si vede e che si può “mostrare” in televisione (magari grazie a una sapiente regia, che offra anche gli elementi per interpretare l’informazione che viene fornita).
Non è strano invece che si pensi all’Italia come a un’isola nella globalizzazione: la stessa vittoria elettorale potrebbe essere interpretata come il rifiuto di una parte importante della popolazione italiana a partecipare sul serio ai processi globali (le stesse decisioni di politica estera, orientate a sostenere alcuni "amici" piuttosto che a perseguire una politica di lungo termine, così come quelle riguardanti la gestione dei fenomeni migratori, sembrano esprimere una posizione di questo genere). Peccato soltanto che staccarsi dai processi globali non sia possibile.
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lunedì 6 ottobre 2008
Una modesta proposta
Pochi giorni fa il premier Berlusconi e il ministro della pubblica istruzioni Gelmini hanno annunciato l'acquisto di ben 1000 lavagne elettroniche da distribuire in tutte le scuole d'Italia.
Ma perchè fermare l'innovazione alla diminuzione del numero di maestre per classe e all'introduzione della prodigiosa (ancorchè non così nuova)lavagna? Non sarebbe meglio andare oltre? Non si potrebbe risparmiare un po' di più?
Un modo c'è.
Aboliamo le maestre e i maestri, che distraggono gli alunni dallo studio e dalla visione della lavagna magica. E introduciamo al loro posto dei semplici maxischermi che trasmettano quanto di più educativo viene quotidianamente prodotto dalla Endemol.
La formazione a distanza (o distance learning o ancora e-learning, per chi è più à la page) è una realtà ormai da decenni. In paesi avanzati come l'Australia da decenni si usa per educare una delle più colte classi rurali del pianeta. Facciamolo anche noi!
E visto che ci siamo, riduciamo ancora di più la spesa. Aboliamo anche i medici di base e i presidi ospedalieri e distribuiamo in tutte le case una copia di "Where there are not doctors" con una bella foto del premier in terza di copertina, a fianco a uno schermo televisivo. Sarà di certo sufficiente per ridurre il debito della sanità pubblica.
Ma perchè fermare l'innovazione alla diminuzione del numero di maestre per classe e all'introduzione della prodigiosa (ancorchè non così nuova)lavagna? Non sarebbe meglio andare oltre? Non si potrebbe risparmiare un po' di più?
Un modo c'è.
Aboliamo le maestre e i maestri, che distraggono gli alunni dallo studio e dalla visione della lavagna magica. E introduciamo al loro posto dei semplici maxischermi che trasmettano quanto di più educativo viene quotidianamente prodotto dalla Endemol.
La formazione a distanza (o distance learning o ancora e-learning, per chi è più à la page) è una realtà ormai da decenni. In paesi avanzati come l'Australia da decenni si usa per educare una delle più colte classi rurali del pianeta. Facciamolo anche noi!
E visto che ci siamo, riduciamo ancora di più la spesa. Aboliamo anche i medici di base e i presidi ospedalieri e distribuiamo in tutte le case una copia di "Where there are not doctors" con una bella foto del premier in terza di copertina, a fianco a uno schermo televisivo. Sarà di certo sufficiente per ridurre il debito della sanità pubblica.
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venerdì 3 ottobre 2008
Il decreto Gelmini, il governo e la realtà
Il decreto legislativo 137 ha generato soltanto critiche. Al di là degli esponenti del governo nessuno tra le associazioni di genitori, di docenti o di studiosi dell’educazioni ne ha assunto la difesa. Anzi, anche alcuni soggetti che avevano accolto il ministro Maria Stella Gelmini con interesse, come la Associazione Italiana Maestri Cattolici hanno poi bocciato in modo radicale il decreto.
E il decreto appare assurdo non perché preveda licenziamenti (o meglio non assunzioni) o una riduzione della spesa, ma perché lo fa senza tener minimamente conto dei luoghi in cui le risorse si trovano, delle situazioni in cui esse sono produttive, o anche semplicemente di una qualsiasi analisi della realtà.
Gli stessi rapporti dell’OCSE su cui viene fondata la motivazione dei mutamenti imposti alle scuole non sono probabilmente stati letti. Il ministro e il suo staff non si sono neanche accorti che le critiche al sistema educativo italiano non erano rivolte alle scuole elementari (né che in nessun paese industrializzato si adottano le modalità di educazione primaria proposte).
Nonostante le critiche e la mobilitazione di migliaia di persone il decreto sarà però approvato. Probabilmente non perché si sia convinti dei suoi contenuti (la difesa che ne è stata fatta dallo stesso presidente del consiglio non contiene un solo dato “reale”, ma è stata semplicemente fondata su uno slogan, totalmente ideologico – non perché ricco di idee, ma perché basato su falsa coscienza senza nessun legame con la realtà), ma perché serve far vedere al paese che si è in grado di decidere.
E soprattutto che le decisioni vengono prese nonostante tutto e al di là di tutto. Poi se in questo modo si producono danni, pazienza. La realtà non conta. Conta soltanto far vedere che al governo si decide.
Intanto, per rafforzare l’immagine di forza dei decisori, la polizia segue le manifestazioni pubbliche di genitori e docenti, non con agenti in divisa che assicurino l’ordine, ma con agenti in borghese che controllino, e magari identifichino, i pericolosi agitatori che disturbano il nuovo timoniere.
E a rafforzare tutto questo contribuisce anche l’energia spesa dai mezzi di comunicazione di massa soprattutto in tre direzioni:
- la diffusione di una sensazione di insicurezza generica (così generica che possono esserle date le risposte più appariscenti e meno efficaci, come quella di mettere nelle strade un po’ di militari armati come se andassero in guerra);
- l’insofferenza per tutto ciò che non è uniforme (non è un caso che nel corso degli ultimi mesi si siano moltiplicate le azioni violente nei confronti degli stranieri, degli omosessuali, degli anziani, dei disabili), che si esprime anche nelle iniziative istituzionali contro la libertà di culto;
- la semplificazione di tutto ciò che è complesso, secondo l’idea che “popolare” debba essere semplice.
L'opposizione al Decreto Gelmini acquista in questo contesto un significato diverso da quello di semplice difesa di un modello di organizzazione scolastica che funziona. Non si tratta di mantenere la scuola cos'ì com'è, ma di creare opportunità di partecipazione democratica e di mettere la politica a contatto con la realtà.
Ecco qualche link rilevante:
http://www.scuolapistelli.it/ (una scuola elementare che si mobilita)
http://www.new.facebook.com/home.php?ref=home#/group.php?gid=29602343107&ref=mf (coordinamento genitori alunni)
http://rapidshare.com/files/150495610/ultimo_tg3.mpg.html (intervista a un insegnante)
http://www.scuola126.it/ (coordinamento delle scuole romane)
http://scuolaschool.spaces.live.com/ (documentazione)
http://www.retescuole.net/ (rete delle scuole, da Milano)
E il decreto appare assurdo non perché preveda licenziamenti (o meglio non assunzioni) o una riduzione della spesa, ma perché lo fa senza tener minimamente conto dei luoghi in cui le risorse si trovano, delle situazioni in cui esse sono produttive, o anche semplicemente di una qualsiasi analisi della realtà.
Gli stessi rapporti dell’OCSE su cui viene fondata la motivazione dei mutamenti imposti alle scuole non sono probabilmente stati letti. Il ministro e il suo staff non si sono neanche accorti che le critiche al sistema educativo italiano non erano rivolte alle scuole elementari (né che in nessun paese industrializzato si adottano le modalità di educazione primaria proposte).
Nonostante le critiche e la mobilitazione di migliaia di persone il decreto sarà però approvato. Probabilmente non perché si sia convinti dei suoi contenuti (la difesa che ne è stata fatta dallo stesso presidente del consiglio non contiene un solo dato “reale”, ma è stata semplicemente fondata su uno slogan, totalmente ideologico – non perché ricco di idee, ma perché basato su falsa coscienza senza nessun legame con la realtà), ma perché serve far vedere al paese che si è in grado di decidere.
E soprattutto che le decisioni vengono prese nonostante tutto e al di là di tutto. Poi se in questo modo si producono danni, pazienza. La realtà non conta. Conta soltanto far vedere che al governo si decide.
Intanto, per rafforzare l’immagine di forza dei decisori, la polizia segue le manifestazioni pubbliche di genitori e docenti, non con agenti in divisa che assicurino l’ordine, ma con agenti in borghese che controllino, e magari identifichino, i pericolosi agitatori che disturbano il nuovo timoniere.
E a rafforzare tutto questo contribuisce anche l’energia spesa dai mezzi di comunicazione di massa soprattutto in tre direzioni:
- la diffusione di una sensazione di insicurezza generica (così generica che possono esserle date le risposte più appariscenti e meno efficaci, come quella di mettere nelle strade un po’ di militari armati come se andassero in guerra);
- l’insofferenza per tutto ciò che non è uniforme (non è un caso che nel corso degli ultimi mesi si siano moltiplicate le azioni violente nei confronti degli stranieri, degli omosessuali, degli anziani, dei disabili), che si esprime anche nelle iniziative istituzionali contro la libertà di culto;
- la semplificazione di tutto ciò che è complesso, secondo l’idea che “popolare” debba essere semplice.
L'opposizione al Decreto Gelmini acquista in questo contesto un significato diverso da quello di semplice difesa di un modello di organizzazione scolastica che funziona. Non si tratta di mantenere la scuola cos'ì com'è, ma di creare opportunità di partecipazione democratica e di mettere la politica a contatto con la realtà.
Ecco qualche link rilevante:
http://www.scuolapistelli.it/ (una scuola elementare che si mobilita)
http://www.new.facebook.com/home.php?ref=home#/group.php?gid=29602343107&ref=mf (coordinamento genitori alunni)
http://rapidshare.com/files/150495610/ultimo_tg3.mpg.html (intervista a un insegnante)
http://www.scuola126.it/ (coordinamento delle scuole romane)
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giovedì 25 settembre 2008
Un paese aperto alla dimensione globale
"I ristoranti cinesi in Italia possono essere a rischio contaminazione da melamina". E' l'allarme lanciato dal Sottosegretario alla Salute Francesca Martini, intervenuta a 'Repubblica Tv' sullo scandalo del latte cinese contaminato, che ha intossicato in Cina decine di migliaia di bambini. ''Io non sono mai stata in un ristorante cinese e mai ci andrò''. (http://www.repubblica.it/2008/09/sezioni/esteri/cina-colla-latte/rischi-italia/rischi-italia.html )
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venerdì 19 settembre 2008
America latina
L'America latina è stata considerata a lungo dagli Stati Uniti come il proprio backyard. E questo statuto di giardino di casa nordamericano era riconosciuto anche da molti leader latinoamericani. Da un po' di tempo - come si può leggere nell'articolo a cui si accede cliccando sul titolo - non è più così: non soltanto per le posizioni assunte da Venezuela e Bolivia, ma anche per la crescente autonomia economica e politica degli altri stati.
Questo non vuol dire che i problemi siano finiti. Due questioni particolarmente evidenti sono quella del rapporto tra minoranze e maggioranze (le minoranze ricche e criolle e le maggioranze povere e spesso indigene) e quella del rapporto tra governi centrali e governi regionali o statali.
Probabilmente le soluzioni non si trovano nelle esperienze di federalismo tradizionali.
Questo non vuol dire che i problemi siano finiti. Due questioni particolarmente evidenti sono quella del rapporto tra minoranze e maggioranze (le minoranze ricche e criolle e le maggioranze povere e spesso indigene) e quella del rapporto tra governi centrali e governi regionali o statali.
Probabilmente le soluzioni non si trovano nelle esperienze di federalismo tradizionali.
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Alitalia
Una intervista in cui si mettono in evidenza alcuni aspetti spesso resi invisibili della vicenda Alitalia.
mercoledì 10 settembre 2008
sabato 26 luglio 2008
La valorizzazione e il rafforzamento del potenziale umano della PA
La grande maggioranza dei servizi assicurati dal settore pubblico, per loro natura, sono direttamente dipendenti dalla qualità, dalla preparazione, dalle motivazioni, dalla attitudine comunicativa e di ascolto o dallo spirito di iniziativa del personale che li eroga. Gli operatori della pubblica amministrazione rappresentano, nel loro complesso, il principale bacino di “intelligenza”, di capacità e di conoscenza di cui il Paese dispone.
Per lungo tempo, questa “centralità” delle risorse umane nella PA è stata, di fatto, negata. Fino agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, in effetti, sia in sede politica, sia in quella scientifica, era dominante un approccio che coglieva l’amministrazione pubblica come una “struttura giuridico-organizzativa”, una entità, cioè, “de-umanizzata”, guidata da impersonali meccanismi interni, di natura prevalentemente normativa e complessivamente orientata a garantire la propria stabilità nel tempo. In questa prospettiva, il personale appariva una variabile dipendente, da imbrigliare in un reticolo di compiti e di ruoli predefiniti (che trovava concreta espressione nel cosiddetto “mansionario”) dai quali non doveva discostarsi.
Quando si incominciò a comprendere che tale approccio stava portando la pubblica amministrazione ai margini di un mondo in crescente trasformazione, quella che prima era definita, con palesi intenti riduzionistici, la “componente umana” dell’organizzazione, nel volgere di pochi anni, iniziò ad essere riconosciuta come un “capitale” da investire per consentire alle amministrazioni di modernizzarsi.
La “rivoluzione informatica” degli anni ’90 ha ulteriormente sparigliato le carte. Vista solo come una “rivoluzione tecnologica” e non come espressione di un più sotterraneo e vasto passaggio di natura sociale, essa è stata gestita e “assorbita” dalla PA in modo perlopiù epidermico. Questa interpretazione riduttiva ha avuto un duplice effetto. Da una parte, ha nuovamente spostato l’asse dell’attenzione sulla “struttura” (in questo caso, tecnologica o, al massimo, tecno-organizzativa), dando l’illusione che i computer, di per sé, fossero sufficienti per sanare i guai della pubblica amministrazione. Dall’altra – e conseguentemente –, ha fatto ulteriormente slittare sullo sfondo la dimensione delle risorse umane, ponendola in una posizione ancillare e funzionalmente asservita a quella tecnologica.
Il complesso avvicendarsi di forze tra loro contrastanti ha fortemente messo sotto stress l’amministrazione italiana; tant’è che, in essa, si trovano oggi a convivere le regole “meccanicistiche” delle organizzazioni “pre-informatiche” con forme altamente tecnologizzate e sofisticate di produzione dei servizi. In mezzo, c’è un personale che, sospeso tra i vincoli normativi del passato e le prospettive di sviluppo tecnologico del futuro, incontra non poche difficoltà nel trovare una propria coerente linea di azione. Non è infrequente, infatti, osservare sia nei funzionari, sia nei dirigenti un vero e proprio senso di ansia e spaesamento, che trova il suo fondamento nella crisi dei punti di riferimento tradizionali (come il principio di un’azione orientata rispetto alle norme) e nell’incertezza rispetto agli esiti e ai meccanismi dei processi di trasformazione organizzativa e di innovazione tecnologica in corso.
Questo insieme di tensioni può essere efficacemente affrontato solo ricercando un “riallineamento” tra il cambiamento tecnologico e la valorizzazione delle risorse umane. Tale riallineamento non può avvenire secondo un approccio tecnologicamente deterministico (“prima viene la tecnologia e poi le risorse umane si adatteranno”). Al contrario, come sembrano indicare gli elementi emersi dalla ricerca, esso può realizzarsi solo se si smette di concentrarsi sulle “tecnologie” in sé stesse e si comincia a riflettere seriamente sul “trasferimento tecnologico”, vale a dire su quel complesso processo (tecnico, sociale, cognitivo, affettivo, ecc.) che rende possibile a una tecnologia di “diventare parte” di un sistema di relazioni umane chiamato “organizzazione”.
Un’impostazione simile richiede di riconsiderare l’intero spettro di questioni (dimensione etica, formazione e aggiornamento, pratiche operative, ecc.) che ruotano intorno alla valorizzazione e al rafforzamento del potenziale umano, avendo la capacità di ribaltare i termini del problema. Il punto, infatti, non è sapere quali siano le conoscenze e le capacità di cui il personale deve disporre per utilizzare un insieme di nuove tecnologie; il punto è sapere come integrare le nuove tecnologie nella vita degli operatori, in modo che questi ultimi possano “appropriarsene”, sia individualmente, sia, soprattutto, collettivamente.
La ricerca ha consentito di definire una mappa che comprende 25 fenomeni di ostacolo rilevanti circa la valorizzazione e il rafforzamento del potenziale umano della pubblica amministrazione. In particolare, questi fenomeni possono essere ricondotti a 4 categorie.
1) Difficoltà di valorizzare gli orientamenti al cambiamento e all’innovazione dei funzionari pubblici
- Mancato riconoscimento degli sforzi degli innovatori
- Difficoltà nella gestione degli “oppositori” all’innovazione
- Tendenze all’auto-riproduzione nei processi di reclutamento
- Scarsa capacità di pianificazione strategica
- Carenza di conoscenze circa il rapporto tra elaborazione delle politiche e preparazione del budget
- Diffusione di approcci prescrittivi all’etica pubblica
- Mancato riconoscimento delle conoscenze e delle capacità acquisite
2) Carenze della leadership per la guida dei processi in atto
- Frammentazione della leadership
- Carenza di leadership
- Incerta attribuzione delle responsabilità
- Autopercezione eccessivamente positiva del personale
- Diffusione di forme di “gerarchia disconnessa”
- Scarsa diffusione di una leadership trasformazionale
3) Diffidenza a intraprendere nuovi percorsi e nuove procedure da parte del personale
- Affaticamento da innovazione
- Radicamento della convinzione circa l’impossibilità di agire per l’innovazione
- Basse retribuzioni e assenza di incentivi
- Conflitti intraprofessionali/interprofessionali
- Tendenza a evitare innovazioni per timore dei rischi
- Tendenza dei funzionari a mantenere lo status quo
- Timori di un incremento di carichi di lavoro
4) Difficoltà nella gestione della conoscenza
- Eccessivo ricorso alla segretezza e alla riservatezza
- Mancanza delle capacità di comunicazione e di gestione della conoscenza
- Scarsa capacità di disseminazione
- Scarsa diffusione delle competenze tecnologiche tra i funzionari
- Limitata attenzione all’acquisizione di conoscenze funzionali all’analisi della realtà
Per lungo tempo, questa “centralità” delle risorse umane nella PA è stata, di fatto, negata. Fino agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, in effetti, sia in sede politica, sia in quella scientifica, era dominante un approccio che coglieva l’amministrazione pubblica come una “struttura giuridico-organizzativa”, una entità, cioè, “de-umanizzata”, guidata da impersonali meccanismi interni, di natura prevalentemente normativa e complessivamente orientata a garantire la propria stabilità nel tempo. In questa prospettiva, il personale appariva una variabile dipendente, da imbrigliare in un reticolo di compiti e di ruoli predefiniti (che trovava concreta espressione nel cosiddetto “mansionario”) dai quali non doveva discostarsi.
Quando si incominciò a comprendere che tale approccio stava portando la pubblica amministrazione ai margini di un mondo in crescente trasformazione, quella che prima era definita, con palesi intenti riduzionistici, la “componente umana” dell’organizzazione, nel volgere di pochi anni, iniziò ad essere riconosciuta come un “capitale” da investire per consentire alle amministrazioni di modernizzarsi.
La “rivoluzione informatica” degli anni ’90 ha ulteriormente sparigliato le carte. Vista solo come una “rivoluzione tecnologica” e non come espressione di un più sotterraneo e vasto passaggio di natura sociale, essa è stata gestita e “assorbita” dalla PA in modo perlopiù epidermico. Questa interpretazione riduttiva ha avuto un duplice effetto. Da una parte, ha nuovamente spostato l’asse dell’attenzione sulla “struttura” (in questo caso, tecnologica o, al massimo, tecno-organizzativa), dando l’illusione che i computer, di per sé, fossero sufficienti per sanare i guai della pubblica amministrazione. Dall’altra – e conseguentemente –, ha fatto ulteriormente slittare sullo sfondo la dimensione delle risorse umane, ponendola in una posizione ancillare e funzionalmente asservita a quella tecnologica.
Il complesso avvicendarsi di forze tra loro contrastanti ha fortemente messo sotto stress l’amministrazione italiana; tant’è che, in essa, si trovano oggi a convivere le regole “meccanicistiche” delle organizzazioni “pre-informatiche” con forme altamente tecnologizzate e sofisticate di produzione dei servizi. In mezzo, c’è un personale che, sospeso tra i vincoli normativi del passato e le prospettive di sviluppo tecnologico del futuro, incontra non poche difficoltà nel trovare una propria coerente linea di azione. Non è infrequente, infatti, osservare sia nei funzionari, sia nei dirigenti un vero e proprio senso di ansia e spaesamento, che trova il suo fondamento nella crisi dei punti di riferimento tradizionali (come il principio di un’azione orientata rispetto alle norme) e nell’incertezza rispetto agli esiti e ai meccanismi dei processi di trasformazione organizzativa e di innovazione tecnologica in corso.
Questo insieme di tensioni può essere efficacemente affrontato solo ricercando un “riallineamento” tra il cambiamento tecnologico e la valorizzazione delle risorse umane. Tale riallineamento non può avvenire secondo un approccio tecnologicamente deterministico (“prima viene la tecnologia e poi le risorse umane si adatteranno”). Al contrario, come sembrano indicare gli elementi emersi dalla ricerca, esso può realizzarsi solo se si smette di concentrarsi sulle “tecnologie” in sé stesse e si comincia a riflettere seriamente sul “trasferimento tecnologico”, vale a dire su quel complesso processo (tecnico, sociale, cognitivo, affettivo, ecc.) che rende possibile a una tecnologia di “diventare parte” di un sistema di relazioni umane chiamato “organizzazione”.
Un’impostazione simile richiede di riconsiderare l’intero spettro di questioni (dimensione etica, formazione e aggiornamento, pratiche operative, ecc.) che ruotano intorno alla valorizzazione e al rafforzamento del potenziale umano, avendo la capacità di ribaltare i termini del problema. Il punto, infatti, non è sapere quali siano le conoscenze e le capacità di cui il personale deve disporre per utilizzare un insieme di nuove tecnologie; il punto è sapere come integrare le nuove tecnologie nella vita degli operatori, in modo che questi ultimi possano “appropriarsene”, sia individualmente, sia, soprattutto, collettivamente.
La ricerca ha consentito di definire una mappa che comprende 25 fenomeni di ostacolo rilevanti circa la valorizzazione e il rafforzamento del potenziale umano della pubblica amministrazione. In particolare, questi fenomeni possono essere ricondotti a 4 categorie.
1) Difficoltà di valorizzare gli orientamenti al cambiamento e all’innovazione dei funzionari pubblici
- Mancato riconoscimento degli sforzi degli innovatori
- Difficoltà nella gestione degli “oppositori” all’innovazione
- Tendenze all’auto-riproduzione nei processi di reclutamento
- Scarsa capacità di pianificazione strategica
- Carenza di conoscenze circa il rapporto tra elaborazione delle politiche e preparazione del budget
- Diffusione di approcci prescrittivi all’etica pubblica
- Mancato riconoscimento delle conoscenze e delle capacità acquisite
2) Carenze della leadership per la guida dei processi in atto
- Frammentazione della leadership
- Carenza di leadership
- Incerta attribuzione delle responsabilità
- Autopercezione eccessivamente positiva del personale
- Diffusione di forme di “gerarchia disconnessa”
- Scarsa diffusione di una leadership trasformazionale
3) Diffidenza a intraprendere nuovi percorsi e nuove procedure da parte del personale
- Affaticamento da innovazione
- Radicamento della convinzione circa l’impossibilità di agire per l’innovazione
- Basse retribuzioni e assenza di incentivi
- Conflitti intraprofessionali/interprofessionali
- Tendenza a evitare innovazioni per timore dei rischi
- Tendenza dei funzionari a mantenere lo status quo
- Timori di un incremento di carichi di lavoro
4) Difficoltà nella gestione della conoscenza
- Eccessivo ricorso alla segretezza e alla riservatezza
- Mancanza delle capacità di comunicazione e di gestione della conoscenza
- Scarsa capacità di disseminazione
- Scarsa diffusione delle competenze tecnologiche tra i funzionari
- Limitata attenzione all’acquisizione di conoscenze funzionali all’analisi della realtà
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venerdì 25 luglio 2008
La “Sintonizzazione tra pubblica amministrazione e società”
Per mezzo della ricerca di cui si è iniziato a parlare nei post precedenti, un secondo insieme di ostacoli per l’innovazione nelle pubbliche amministrazioni è stato identificato nella inadeguatezza del processo di sintonizzazione tra la PA e la società.
Le trasformazioni che hanno interessato in questi ultimi decenni tutte le aree del pianeta hanno comportato una radicale ridefinizione delle relazioni tra amministrazioni pubbliche e società, nella direzione di un loro netto incremento e di una loro altrettanto accentuata differenzia¬zione.
Il settore pubblico ha cercato di fare fronte a questo duplice processo, perseguendo diverse strategie, quali la diversificazione dell’offerta dei servizi o il potenziamento delle strutture di interazione e di interlocuzione con gli utenti (ad esempio, gli URP).
Tuttavia, la “rincorsa” delle pubbliche amministrazioni per mantenersi al passo con queste nuove sfide rischia di infrangersi non soltanto contro lo scoglio rap¬presentato dalla loro limitata capacità di sfruttare pienamente le nuove tecnologie, ma anche contro quello rappresentato dall’esigenza di quello che potrebbe essere definito come un adeguamento dell’amministrazione agli “standard di vita” della società, attraverso una sintonizzazione che – per mettere le amministrazioni in grado di fronteggiare un sistema di relazioni diventato qualitativamente e quantitativamente più complesso – richiede di ripensare la stessa organizzazione interna della PA, i linguaggi che adotta e i servizi che offre.
Rispetto alla possibilità di attuare questo processo, sono stati individuati e validati 16 fenomeni di ostacolo, appartenenti a 3 categorie:
1) Autoreferenzialità nelle modalità di gestione dei servizi
- Difficoltà a inserire le risorse dove servono
- Enfasi sui costi dei servizi
- Approcci fondati su soluzioni uniformi (“One Size Fits All”)
- Diffusione di una cultura burocratica
- Presenza di norme consuetudinarie che ostacolano il funzionamento del servizio
2) Difficoltà nei rapporti con gli utenti dei servizi
- Mancanza di un linguaggio comune tra amministrazioni pubbliche e loro
- interlocutori.
- Tendenza a non esporsi al giudizio pubblico
- Isolamento rispetto alle esigenze degli utenti
- Discredito della Pubblica amministrazione
- Resistenze al cambiamento da parte degli utilizzatori finali
3) Problematicità dei rapporti con il mondo politico e con i processi legislativi
- Resistenze del personale nei confronti delle leadership politiche
- Iniziative di cambiamento proposte da soggetti esterni
- Delega dei processi di innovazione alla legiferazione
- Assenza di valutazione delle politiche
- Crescente intervento politico nella definizione degli obiettivi
- Sanzione politica del fallimento
Le trasformazioni che hanno interessato in questi ultimi decenni tutte le aree del pianeta hanno comportato una radicale ridefinizione delle relazioni tra amministrazioni pubbliche e società, nella direzione di un loro netto incremento e di una loro altrettanto accentuata differenzia¬zione.
Il settore pubblico ha cercato di fare fronte a questo duplice processo, perseguendo diverse strategie, quali la diversificazione dell’offerta dei servizi o il potenziamento delle strutture di interazione e di interlocuzione con gli utenti (ad esempio, gli URP).
Tuttavia, la “rincorsa” delle pubbliche amministrazioni per mantenersi al passo con queste nuove sfide rischia di infrangersi non soltanto contro lo scoglio rap¬presentato dalla loro limitata capacità di sfruttare pienamente le nuove tecnologie, ma anche contro quello rappresentato dall’esigenza di quello che potrebbe essere definito come un adeguamento dell’amministrazione agli “standard di vita” della società, attraverso una sintonizzazione che – per mettere le amministrazioni in grado di fronteggiare un sistema di relazioni diventato qualitativamente e quantitativamente più complesso – richiede di ripensare la stessa organizzazione interna della PA, i linguaggi che adotta e i servizi che offre.
Rispetto alla possibilità di attuare questo processo, sono stati individuati e validati 16 fenomeni di ostacolo, appartenenti a 3 categorie:
1) Autoreferenzialità nelle modalità di gestione dei servizi
- Difficoltà a inserire le risorse dove servono
- Enfasi sui costi dei servizi
- Approcci fondati su soluzioni uniformi (“One Size Fits All”)
- Diffusione di una cultura burocratica
- Presenza di norme consuetudinarie che ostacolano il funzionamento del servizio
2) Difficoltà nei rapporti con gli utenti dei servizi
- Mancanza di un linguaggio comune tra amministrazioni pubbliche e loro
- interlocutori.
- Tendenza a non esporsi al giudizio pubblico
- Isolamento rispetto alle esigenze degli utenti
- Discredito della Pubblica amministrazione
- Resistenze al cambiamento da parte degli utilizzatori finali
3) Problematicità dei rapporti con il mondo politico e con i processi legislativi
- Resistenze del personale nei confronti delle leadership politiche
- Iniziative di cambiamento proposte da soggetti esterni
- Delega dei processi di innovazione alla legiferazione
- Assenza di valutazione delle politiche
- Crescente intervento politico nella definizione degli obiettivi
- Sanzione politica del fallimento
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martedì 22 luglio 2008
La “Concretezza del trasferimento di tecnologie” nella PA
Ancora alcune pillole dalla ricerca sull’innovazione nella PA.
Come già si è visto in uno degli ultimi post, uno degli ambiti nei quali si produce il rischio di una mancata innovazione nella PA italiana è quello relativo alle modalità del trasferimento di tecnologie. In particolare, questo appare connesso al diffuso orientamento di introdurre le nuove tecnologie senza tener conto delle “regole” organizzative, sociali e culturali, a volte anche quelle più elementari, che una tale operazione richiede.
Quest’attitudine è spesso legata a un approccio falsamente concreto alle tecnologie, fondato su una visione astratta della tecnologia, che ne trascura la insita complessità tecnica, gli aspetti che la collegano al più ampio contesto tecnologico pre-esistente e, soprattutto, le implicazioni diverse da quelle di natura tecnica.
La ricerca ha consentito di identificare i fattori che contribuiscono all’affermazione di un approccio di questo genere, ostacolando un efficace trasferimento. Si tratta, in particolare, di 23 fattori o fenomeni di ostacolo, che sono elencati di seguito, organizzati in possono 5 categorie. Questi fattori sono stati dapprima identificati attraverso una ricerca documentaria sulla letteratura internazionale e italiana sulle riforme della PA (sono stati esaminati oltre 350 documenti) e poi sono stati validati attraverso la consultazione di 50 informatori qualificati (esperti, dirigenti e funzionari impegnati in iniziative di miglioramento e modernizzazione delle pubbliche amministrazioni al livello locale e al livello centrale).
1) I paradossi prodotti da un’errata pianificazione degli interventi di riforma e di innovazione
- Effetti paradossali della determinazione degli obiettivi
- Pianificazione di breve periodo
- Tendenza a una eccessiva pianificazione del cambiamento
- Ampiezza e frammentazione delle iniziative di innovazione
- Assenza di tempo e di risorse per l’elaborazione di nuove soluzioni
- Approccio asistemico all’innovazione tecnologica
2) La mancanza di un ambiente cognitivo favorevole all’inserimento delle nuove tecnologie
- Uso di modelli eccessivamente standardizzati di valutazione delle prestazioni e dei servizi
- Scarso accordo sulla definizione dei problemi e delle soluzioni
- Incertezza nella definizione dei compiti dei funzionari pubblici
- Conservatorismo
- La sindrome del “non inventato qui”
- Scarso riferimento alle pratiche di consolidata efficacia (smart practices)
3) Inappropriatezza delle pratiche di introduzione delle nuove tecnologie
- Assenza di adeguati strumenti tecnologici
- Esternalizzazione dell’e-government
- Assenza di capacità per l’uso degli strumenti tecnologici
- Adozione delle tecnologie sulla base delle caratteristiche estrinseche
4) La presenza di procedure di gestione del personale non in sintonia con un processo di trasferimento di nuove tecnologie
- Turn over dei dirigenti
- Effetti paradossali delle riforme basate sul merito
- Difficoltà di accesso a nuove risorse umane
5) La rigidità strutturale delle organizzazioni pubbliche e la mancanza di cooperazione tra le diverse componenti dei servizi
- Dipartimentalismo (eccessiva segmentazione delle organizzazioni)
- Scarsa cooperazione tra settori della PA
- Mantenimento di rigide strutture gerarchiche
- Necessità di assicurare la continuità del servizio
p
Come già si è visto in uno degli ultimi post, uno degli ambiti nei quali si produce il rischio di una mancata innovazione nella PA italiana è quello relativo alle modalità del trasferimento di tecnologie. In particolare, questo appare connesso al diffuso orientamento di introdurre le nuove tecnologie senza tener conto delle “regole” organizzative, sociali e culturali, a volte anche quelle più elementari, che una tale operazione richiede.
Quest’attitudine è spesso legata a un approccio falsamente concreto alle tecnologie, fondato su una visione astratta della tecnologia, che ne trascura la insita complessità tecnica, gli aspetti che la collegano al più ampio contesto tecnologico pre-esistente e, soprattutto, le implicazioni diverse da quelle di natura tecnica.
La ricerca ha consentito di identificare i fattori che contribuiscono all’affermazione di un approccio di questo genere, ostacolando un efficace trasferimento. Si tratta, in particolare, di 23 fattori o fenomeni di ostacolo, che sono elencati di seguito, organizzati in possono 5 categorie. Questi fattori sono stati dapprima identificati attraverso una ricerca documentaria sulla letteratura internazionale e italiana sulle riforme della PA (sono stati esaminati oltre 350 documenti) e poi sono stati validati attraverso la consultazione di 50 informatori qualificati (esperti, dirigenti e funzionari impegnati in iniziative di miglioramento e modernizzazione delle pubbliche amministrazioni al livello locale e al livello centrale).
1) I paradossi prodotti da un’errata pianificazione degli interventi di riforma e di innovazione
- Effetti paradossali della determinazione degli obiettivi
- Pianificazione di breve periodo
- Tendenza a una eccessiva pianificazione del cambiamento
- Ampiezza e frammentazione delle iniziative di innovazione
- Assenza di tempo e di risorse per l’elaborazione di nuove soluzioni
- Approccio asistemico all’innovazione tecnologica
2) La mancanza di un ambiente cognitivo favorevole all’inserimento delle nuove tecnologie
- Uso di modelli eccessivamente standardizzati di valutazione delle prestazioni e dei servizi
- Scarso accordo sulla definizione dei problemi e delle soluzioni
- Incertezza nella definizione dei compiti dei funzionari pubblici
- Conservatorismo
- La sindrome del “non inventato qui”
- Scarso riferimento alle pratiche di consolidata efficacia (smart practices)
3) Inappropriatezza delle pratiche di introduzione delle nuove tecnologie
- Assenza di adeguati strumenti tecnologici
- Esternalizzazione dell’e-government
- Assenza di capacità per l’uso degli strumenti tecnologici
- Adozione delle tecnologie sulla base delle caratteristiche estrinseche
4) La presenza di procedure di gestione del personale non in sintonia con un processo di trasferimento di nuove tecnologie
- Turn over dei dirigenti
- Effetti paradossali delle riforme basate sul merito
- Difficoltà di accesso a nuove risorse umane
5) La rigidità strutturale delle organizzazioni pubbliche e la mancanza di cooperazione tra le diverse componenti dei servizi
- Dipartimentalismo (eccessiva segmentazione delle organizzazioni)
- Scarsa cooperazione tra settori della PA
- Mantenimento di rigide strutture gerarchiche
- Necessità di assicurare la continuità del servizio
p
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giovedì 17 luglio 2008
Le politiche dell'apparenza e la rivolta dei capri espiatori
La politica contemporanea sembra spesso caratterizzata da una tendenza a rinunciare a un effettivo governo della realtà sociale e della sua complessità, scegliendo invece di costruire forme di "governo apparente", fondate sull'identificazione di cause apparenti dei problemi e di altrettanto apparenti soluzioni.
Qualche esempio: invece di agire sulla gestione dei consumi energetici e sulla diversificazione delle fonti di energia si inventa una "Robin Hood Tax" con cui punire gli "speculatori"; invece di adottare soluzioni urbane "sicure" si punta il dito sulle minoranze rom e sinti e si propone di "schedare" gli appartenenti a questi gruppi etnici; invece di attuare azioni effettive di cambiamento della PA si mette in evidenza la presenza di "fannulloni e nullafacenti"... e così via.
Qualcosa però si muove.Iniziano a moltiplicarsi le reazioni dei soggetti di volta in volta messi in causa: per esempio, è il caso della creazione della "Federazione Rom e Sinti Insieme" (http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=77226) o di quella del Comitato Fannulloni Operosi (http://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/economia/pubb-ammin/ricorsi-statali/ricorsi-statali.html).
Non basta per riportare l'attenzione pubblica e le politiche sui processi che effettivamente generano situazioni di crisi nelle società contemporanee, però è un primo segno di una realtà che tende a disvelarsi.
Qualche esempio: invece di agire sulla gestione dei consumi energetici e sulla diversificazione delle fonti di energia si inventa una "Robin Hood Tax" con cui punire gli "speculatori"; invece di adottare soluzioni urbane "sicure" si punta il dito sulle minoranze rom e sinti e si propone di "schedare" gli appartenenti a questi gruppi etnici; invece di attuare azioni effettive di cambiamento della PA si mette in evidenza la presenza di "fannulloni e nullafacenti"... e così via.
Qualcosa però si muove.Iniziano a moltiplicarsi le reazioni dei soggetti di volta in volta messi in causa: per esempio, è il caso della creazione della "Federazione Rom e Sinti Insieme" (http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=77226) o di quella del Comitato Fannulloni Operosi (http://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/economia/pubb-ammin/ricorsi-statali/ricorsi-statali.html).
Non basta per riportare l'attenzione pubblica e le politiche sui processi che effettivamente generano situazioni di crisi nelle società contemporanee, però è un primo segno di una realtà che tende a disvelarsi.
mercoledì 9 luglio 2008
La sfida dell'innovazione tecnologica
La ricerca sulla PA di cui è stato anticipato qualcosa nei post precedenti si è conclusa. Il rapporto è stato consegnato al committente. Spero nelle prossime settimane di poterlo diffondere.
Intanto, qualche altra anticipazione.
Al centro della ricerca si trova l'osservazione che al centro dei mutamenti in atto nella PA italiana - compresi quelli relativi alle professionalità e alla possibilità di affermare un'etica pubblica e una cultura della legalità, della trasparenza e dell'innovazione - si trova un processo di innovazione tecnologica che avviene nella maggior parte dei casi in modo casuale e che, nonostante gli investimenti, non è quasi mai adeguatamente gestito.
La mancata gestione di questo processo di innovazione è soprattutto legata a uno scarso riconoscimento delle dinamiche connesse al trasferimento di tecnologie, che sono soltanto in minima parte di carattere "tecnologico". Questo comporta che la tecnologia entri di fatto in modo pervasivo nella PA, ma che raramente essa sia oggetto di un processo di socializzazione che consente che intorno ad essa si producano significati, regole, rappresentazioni,obiettivi, ecc. condivisi tra i diversi soggetti coinvolti: i dirigenti e i funzionari, ma anche i numerosi attori che prestano servizi alla PA e le diverse categorie di utenti.
L'assenza dei necessari processi di socializzazione della tecnologia è soprattutto legato a tre dinamiche:
- la mancanza di concretezza nella gestione del trasferimento di tecnologie (le tecnologie sono percepite in modo "astratto", come apparecchiature avulse da qualsiasi altro elemento della realtà);
- una carente sintonizzazione tra PA e società (la PA partecipa in modo passivo e spesso inconsapevole ai processi di cambiamento sociale e tende a distaccarsi in misura sempre maggiore da società che sono più complesse e diversificate);
- l'inadeguatezza delle politiche di valorizzazione e di rafforzamento del potenziale umano costituito dagli stessi funzionari pubblici, percepiti come un ostacolo più che come una risorsa, che comporta una progressiva perdita di capacità e conoscenze per la PA stessa.
Intanto, qualche altra anticipazione.
Al centro della ricerca si trova l'osservazione che al centro dei mutamenti in atto nella PA italiana - compresi quelli relativi alle professionalità e alla possibilità di affermare un'etica pubblica e una cultura della legalità, della trasparenza e dell'innovazione - si trova un processo di innovazione tecnologica che avviene nella maggior parte dei casi in modo casuale e che, nonostante gli investimenti, non è quasi mai adeguatamente gestito.
La mancata gestione di questo processo di innovazione è soprattutto legata a uno scarso riconoscimento delle dinamiche connesse al trasferimento di tecnologie, che sono soltanto in minima parte di carattere "tecnologico". Questo comporta che la tecnologia entri di fatto in modo pervasivo nella PA, ma che raramente essa sia oggetto di un processo di socializzazione che consente che intorno ad essa si producano significati, regole, rappresentazioni,obiettivi, ecc. condivisi tra i diversi soggetti coinvolti: i dirigenti e i funzionari, ma anche i numerosi attori che prestano servizi alla PA e le diverse categorie di utenti.
L'assenza dei necessari processi di socializzazione della tecnologia è soprattutto legato a tre dinamiche:
- la mancanza di concretezza nella gestione del trasferimento di tecnologie (le tecnologie sono percepite in modo "astratto", come apparecchiature avulse da qualsiasi altro elemento della realtà);
- una carente sintonizzazione tra PA e società (la PA partecipa in modo passivo e spesso inconsapevole ai processi di cambiamento sociale e tende a distaccarsi in misura sempre maggiore da società che sono più complesse e diversificate);
- l'inadeguatezza delle politiche di valorizzazione e di rafforzamento del potenziale umano costituito dagli stessi funzionari pubblici, percepiti come un ostacolo più che come una risorsa, che comporta una progressiva perdita di capacità e conoscenze per la PA stessa.
mercoledì 18 giugno 2008
La digitalizzazione imperfetta
Ancora qualche anticipazione dalla ricerca in corso sulla PA. Oggetto di questo post sono alcuni fenomeni che hanno caratterizzato l'introduzione delle tecnologie dell'informazione nella PA italiana, dando luogo a quella che si potrebbe definire una "digitalizzazione imperfetta".
Trasferimento inappropriato rispetto alle organizzazioni. A volte, quando si sono acquisite le tecnologie, non si è verificata la loro compatibilità con le procedure e persino con i sistemi di norme esistenti (è il caso – menzionato da un esperto durante uno dei focus group - di un software per la contabilità che non consentiva di registrare le spese secondo le modalità prescritte dalle normative in uso).
Trasferimento inappropriato rispetto agli utenti. In alcuni casi, l’introduzione delle nuove tecnologie e di nuove modalità di prestazione dei servizi si è scontrata con il fatto che gli utenti dei servizi ancora facevano riferimento alle procedure di carattere tradizionale; per esempio, in alcuni concorsi interni alla PA si è provato a introdurre procedure di iscrizione “on line”, che tuttavia sono state utilizzate soltanto da pochi funzionari, mentre gli altri hanno preferito utilizzare la posta, che a loro parere, offriva maggiori garanzie per la registrazione sui protocolli.
Confinamento delle capacità di gestione della tecnologia. In molti casi, la gestione del processo di trasferimento è stata affidata a soggetti esterni alle amministrazioni, e di conseguenza non si sono prodotte capacità, né conoscenze interne per la gestione delle tecnologie.
In molti casi, sono stati messi in opera servizi fondati sull’uso delle ITC e basati sul web (siti web degli enti pubblici, prestazione di servizi “on line”). Quasi sempre però la loro gestione è stata affidata a specifiche entità nell’amministrazione o a soggetti esterni all’amministrazione, senza che fossero modificate nell’insieme le forme di organizzazione e di realizzazione delle attività.
Frammentazione tecnologica. Quasi mai si è coordinata l’introduzione delle ICT e lo sviluppo dei loro software tra amministrazioni diverse, ma coinvolte nella realizzazione di servizi e di attività contigue (è per esempio il caso delle “borse del lavoro” che sono state costruite in modo diverso a volte persino tra i servizi per il lavoro della stessa regione).
Riproduzione dei modelli organizzativi esistenti.In molti casi, la distribuzione delle nuove apparecchiature non ha seguito criteri relativi all’utilizzazione effettiva, ma criteri connessi al rispetto delle forme organizzative e gerarchiche (così, per esempio, i computer sono stati per prima cosa collocati sulle scrivanie dei dirigenti, anche quando questi non avevano le capacità di utilizzarli).
Limitazione della portata dell’innovazione. Le nuove tecnologie sono state utilizzate soprattutto come un ausilio alla realizzazione delle attività e delle procedure già esistenti, mentre di rado sono state usate come struttura per la riprogettazione delle procedure o, addirittura, delle organizzazioni. Le potenzialità delle ITC, anche solo come ausilio all’attività amministrativa, sono state utilizzate solo parzialmente, così – per esempio – le e-mail sono utilizzate ancora in misura ridotta e nell’uso della posta elettronica si fa riferimento alle stesse procedure di comunicazione utilizzate in precedenza.
Sottovalutazione dell’impatto sulla domanda di servizi. In alcuni casi, come quello di alcuni servizi locali “on line” si è sottovalutata l’utenza potenziale, così che si sono prodotti lunghi tempi di attesa per la prestazione del servizio e le aspettative degli utenti per un più rapido e semplice servizio sono state disattese; in particolare, questo è accaduto spesso nella attivazione dei “call center” delle amministrazioni.
Introduzione di intermediazioni superflue. In alcuni casi – come per esempio, quello dell’accesso alle informazioni catastali - si è introdotta la possibilità di accedere ai servizi “on line” solo attraverso la mediazione di soggetti privati, con costi superiori e tempi più lunghi di quelli necessari per accedere ai servizi in modo tradizionale, così che molti utenti hanno rinunciato ad utilizzare le nuove modalità di accesso ai servizi, tornando a frequentare gli “sportelli” tradizionali.
Trasferimento inappropriato rispetto alle organizzazioni. A volte, quando si sono acquisite le tecnologie, non si è verificata la loro compatibilità con le procedure e persino con i sistemi di norme esistenti (è il caso – menzionato da un esperto durante uno dei focus group - di un software per la contabilità che non consentiva di registrare le spese secondo le modalità prescritte dalle normative in uso).
Trasferimento inappropriato rispetto agli utenti. In alcuni casi, l’introduzione delle nuove tecnologie e di nuove modalità di prestazione dei servizi si è scontrata con il fatto che gli utenti dei servizi ancora facevano riferimento alle procedure di carattere tradizionale; per esempio, in alcuni concorsi interni alla PA si è provato a introdurre procedure di iscrizione “on line”, che tuttavia sono state utilizzate soltanto da pochi funzionari, mentre gli altri hanno preferito utilizzare la posta, che a loro parere, offriva maggiori garanzie per la registrazione sui protocolli.
Confinamento delle capacità di gestione della tecnologia. In molti casi, la gestione del processo di trasferimento è stata affidata a soggetti esterni alle amministrazioni, e di conseguenza non si sono prodotte capacità, né conoscenze interne per la gestione delle tecnologie.
In molti casi, sono stati messi in opera servizi fondati sull’uso delle ITC e basati sul web (siti web degli enti pubblici, prestazione di servizi “on line”). Quasi sempre però la loro gestione è stata affidata a specifiche entità nell’amministrazione o a soggetti esterni all’amministrazione, senza che fossero modificate nell’insieme le forme di organizzazione e di realizzazione delle attività.
Frammentazione tecnologica. Quasi mai si è coordinata l’introduzione delle ICT e lo sviluppo dei loro software tra amministrazioni diverse, ma coinvolte nella realizzazione di servizi e di attività contigue (è per esempio il caso delle “borse del lavoro” che sono state costruite in modo diverso a volte persino tra i servizi per il lavoro della stessa regione).
Riproduzione dei modelli organizzativi esistenti.In molti casi, la distribuzione delle nuove apparecchiature non ha seguito criteri relativi all’utilizzazione effettiva, ma criteri connessi al rispetto delle forme organizzative e gerarchiche (così, per esempio, i computer sono stati per prima cosa collocati sulle scrivanie dei dirigenti, anche quando questi non avevano le capacità di utilizzarli).
Limitazione della portata dell’innovazione. Le nuove tecnologie sono state utilizzate soprattutto come un ausilio alla realizzazione delle attività e delle procedure già esistenti, mentre di rado sono state usate come struttura per la riprogettazione delle procedure o, addirittura, delle organizzazioni. Le potenzialità delle ITC, anche solo come ausilio all’attività amministrativa, sono state utilizzate solo parzialmente, così – per esempio – le e-mail sono utilizzate ancora in misura ridotta e nell’uso della posta elettronica si fa riferimento alle stesse procedure di comunicazione utilizzate in precedenza.
Sottovalutazione dell’impatto sulla domanda di servizi. In alcuni casi, come quello di alcuni servizi locali “on line” si è sottovalutata l’utenza potenziale, così che si sono prodotti lunghi tempi di attesa per la prestazione del servizio e le aspettative degli utenti per un più rapido e semplice servizio sono state disattese; in particolare, questo è accaduto spesso nella attivazione dei “call center” delle amministrazioni.
Introduzione di intermediazioni superflue. In alcuni casi – come per esempio, quello dell’accesso alle informazioni catastali - si è introdotta la possibilità di accedere ai servizi “on line” solo attraverso la mediazione di soggetti privati, con costi superiori e tempi più lunghi di quelli necessari per accedere ai servizi in modo tradizionale, così che molti utenti hanno rinunciato ad utilizzare le nuove modalità di accesso ai servizi, tornando a frequentare gli “sportelli” tradizionali.
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martedì 3 giugno 2008
Professionalità e trasformazioni nella PA. Anticipi di una ricerca
Da alcuni mesi sono coinvolto in una ricerca sui processi di professionalizzazione nella PA italiana, che ormai è alla sua conclusione. Sembra possibile, quindi, anticipare e discutere qualche risultato .
La ricerca ha comportato una indagine documentaria e sulla letteratura internazionale ed italiana, che è stata seguita dalla consultazione di un panel composto da 50 esperti e informatori qualificati.
In questo modo stati individuati alcuni processi che riguardano la ridefinizione, in funzione delle trasformazioni che interessano le pubbliche amministrazioni italiane, delle componenti della professionalità dei funzionari e dei dirigenti pubblici.
Questi processi – che sono elencati di seguito - fanno riferimento a tre grandi tre aree, in cui si trovano le sfide che le PA italiane si trovano ad affrontare per conseguire migliori livelli di efficacia e di efficienza dell'azione pubblica: quella dell’innovazione e del trasferimento di tecnologie; quella della sintonizzazione tra la PA stessa e la società che la circonda; quella della valorizzazione e del rafforzamento del potenziale umano rappresentato dagli stessi funzionari della PA.
Rispetto alla prima area (trasferimento di tecnologie e innovazione tecnologica) sono stati rilevati processi di:
- Consolidamento di un orientamento alla digitalizzazione delle procedure e delle relazioni
- Differenziazione delle domande tecnologiche e delle modalità di uso delle tecnologie
- Incremento delle opportunità di confronto e di trasferimento di tecnologie tra PPAA
- Sviluppo di competenze tecnologiche in tutte le amminsitrazioni pubbliche (e perdita di conoscenze specialistiche)
In relazione alla seconda area (sintonizzazione tra amministrazione pubblica e società) sono stati osservati processi di:
- Contestualizzazione sociale dell’azione amministrativa
- Moltiplicazione delle interazioni territoriali
- Diffusione di una pressione verso la governance
In connessione con la terza area (valorizzazione e il rafforzamento del potenziale umano) sono stati identificati:
- Crescente rilevanza delle competenze situate (cioè connesse a situazioni specifiche)
- Accelerazione dei processi di trasformazione delle competenze
- Diversificazione dei modelli professionali
- Diversificazione degli strumenti di rafforzamento del capitale umano
Non si tratta di processi riguardanti soltanto le competenze e le capacità dei funzionari, ma di trasformazioni che in molti casi comportano lo sviluppo di nuovi tratti di identità e di una dimensione “interiore” (che comprende – tra l’altro – la determinazione di rappresentazioni della realtà, l’interiorizzazione di norme, l’assunzione di responsabilità, ecc.).
In sostanza, questi processi possono essere rappresentati come le forme di una vera a propria “socializzazione” delle innovazioni che sono state introdotte nelle pubbliche amministrazioni italiane, con la costruzione di nuovi significati condivisi tra i funzionari pubblici. Nuovi significati ai quali corrisponde in molti casi anche l’emergere di forme di azione collettiva, come quelle che sono comportate da altri processi in corso, quali:
- la autonomizzazione dei funzionari, attraverso l’acquisizione da parte degli operatori di una maggiore capacità di decisione in merito al funzionamento delle singole unità operative della PA, con una minore dipendenza, sia rispetto alle gerarchie (comprese quelle politiche), sia rispetto alle amministrazioni nel loro complesso;
- il rafforzamento dell’etica pubblica, che – nonostante la persistenza di comportamenti “non etici” - coinvolge numerosi funzionari nella definizione di codici di comportamento, nell’inserimento di regole deontologiche nei contratti, nella costruzione di patti per la legalità, nella realizzazione di iniziative funzionali all’aumento della trasparenza e nella stessa creazione di associazioni e movimenti per “una nuova etica pubblica”;
- lo sviluppo di comunità (epistemiche, comunicative, di pratica) orientate all’innovazione, nell’ambito della PA, che coinvolgono gruppi di funzionari intorno a intenti, punti di vista, rappresentazioni, regole, comportamenti e azioni condivisi.
La presenza dei processi rilevati non ha sempre esiti “positivi”, di modernizzazione e aumento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione pubblica. Anzi, in molti casi è possibile individuare fenomeni di frammentazione, isolamento e perdita delle capacità che avvengono proprio in connessione con tali processi.
Tuttavia essa può essere considerata come il segno di una dinamica di sviluppo che deve essere sostenuta e guidata attraverso modalità nuove, che non possono essere ridotte nè a quelle di trasformazione istituzionale e organizzativa, né all’incremento delle capacità, né alla semplice introduzione di meccanismi economici.
La ricerca ha comportato una indagine documentaria e sulla letteratura internazionale ed italiana, che è stata seguita dalla consultazione di un panel composto da 50 esperti e informatori qualificati.
In questo modo stati individuati alcuni processi che riguardano la ridefinizione, in funzione delle trasformazioni che interessano le pubbliche amministrazioni italiane, delle componenti della professionalità dei funzionari e dei dirigenti pubblici.
Questi processi – che sono elencati di seguito - fanno riferimento a tre grandi tre aree, in cui si trovano le sfide che le PA italiane si trovano ad affrontare per conseguire migliori livelli di efficacia e di efficienza dell'azione pubblica: quella dell’innovazione e del trasferimento di tecnologie; quella della sintonizzazione tra la PA stessa e la società che la circonda; quella della valorizzazione e del rafforzamento del potenziale umano rappresentato dagli stessi funzionari della PA.
Rispetto alla prima area (trasferimento di tecnologie e innovazione tecnologica) sono stati rilevati processi di:
- Consolidamento di un orientamento alla digitalizzazione delle procedure e delle relazioni
- Differenziazione delle domande tecnologiche e delle modalità di uso delle tecnologie
- Incremento delle opportunità di confronto e di trasferimento di tecnologie tra PPAA
- Sviluppo di competenze tecnologiche in tutte le amminsitrazioni pubbliche (e perdita di conoscenze specialistiche)
In relazione alla seconda area (sintonizzazione tra amministrazione pubblica e società) sono stati osservati processi di:
- Contestualizzazione sociale dell’azione amministrativa
- Moltiplicazione delle interazioni territoriali
- Diffusione di una pressione verso la governance
In connessione con la terza area (valorizzazione e il rafforzamento del potenziale umano) sono stati identificati:
- Crescente rilevanza delle competenze situate (cioè connesse a situazioni specifiche)
- Accelerazione dei processi di trasformazione delle competenze
- Diversificazione dei modelli professionali
- Diversificazione degli strumenti di rafforzamento del capitale umano
Non si tratta di processi riguardanti soltanto le competenze e le capacità dei funzionari, ma di trasformazioni che in molti casi comportano lo sviluppo di nuovi tratti di identità e di una dimensione “interiore” (che comprende – tra l’altro – la determinazione di rappresentazioni della realtà, l’interiorizzazione di norme, l’assunzione di responsabilità, ecc.).
In sostanza, questi processi possono essere rappresentati come le forme di una vera a propria “socializzazione” delle innovazioni che sono state introdotte nelle pubbliche amministrazioni italiane, con la costruzione di nuovi significati condivisi tra i funzionari pubblici. Nuovi significati ai quali corrisponde in molti casi anche l’emergere di forme di azione collettiva, come quelle che sono comportate da altri processi in corso, quali:
- la autonomizzazione dei funzionari, attraverso l’acquisizione da parte degli operatori di una maggiore capacità di decisione in merito al funzionamento delle singole unità operative della PA, con una minore dipendenza, sia rispetto alle gerarchie (comprese quelle politiche), sia rispetto alle amministrazioni nel loro complesso;
- il rafforzamento dell’etica pubblica, che – nonostante la persistenza di comportamenti “non etici” - coinvolge numerosi funzionari nella definizione di codici di comportamento, nell’inserimento di regole deontologiche nei contratti, nella costruzione di patti per la legalità, nella realizzazione di iniziative funzionali all’aumento della trasparenza e nella stessa creazione di associazioni e movimenti per “una nuova etica pubblica”;
- lo sviluppo di comunità (epistemiche, comunicative, di pratica) orientate all’innovazione, nell’ambito della PA, che coinvolgono gruppi di funzionari intorno a intenti, punti di vista, rappresentazioni, regole, comportamenti e azioni condivisi.
La presenza dei processi rilevati non ha sempre esiti “positivi”, di modernizzazione e aumento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione pubblica. Anzi, in molti casi è possibile individuare fenomeni di frammentazione, isolamento e perdita delle capacità che avvengono proprio in connessione con tali processi.
Tuttavia essa può essere considerata come il segno di una dinamica di sviluppo che deve essere sostenuta e guidata attraverso modalità nuove, che non possono essere ridotte nè a quelle di trasformazione istituzionale e organizzativa, né all’incremento delle capacità, né alla semplice introduzione di meccanismi economici.
martedì 20 maggio 2008
Innovazione, conoscenza, business
“Innovazione, Conoscenza, Business . Analisi e prospettive per il knowledge Management” è il titolo di un incontro con Larry Prusak, organizzato il 19 maggio da Assoknowledge di Confindustria e dalla LUISS Guido Carli. Hanno preso parte alla discussione Innocenzo Cipolletta, Ennio Lucarelli, Giuseppe Morandini, Roberto Panzarani, Leonardo Santi, Luca De Biase, Laura Deitinger, Massimo Egidi e anch'io che sto scrivendo, di fronte a una platea molto attiva, composta da studiosi, imprenditori e amministratori pubblici (http://www.luiss.it/eventi/ ).
E' stata un'occasione per riprendere una riflessione sul knowledge management che andasse al di là delle mode e degli stereotipi, che in Italia si concretizzano soprattutto in tre diffuse rappresentazioni: quella circa il fatto che il Knowledge Management si riduca a un insieme di tecnologie per l'archiviazione e il recupero delle informazioni; quella relativa al fatto che esso sia utile e sia applicabile soltanto alle grandi imprese o alle grandi organizzazioni pubbliche e quella relativa al fatto che la sua applicazione richiede grandi investimenti, sia di tempo, sia di risorse finanziarie.
Una riflessione che cerchi di superare questi stereotipi può essere articolata su tre insiemi di osservazioni.
Il primo riguarda le ragioni del knowledge management. Ce ne sono molte, ma probabilmente basta ricordarne qualcuna:
- la crescita della rilevanza degli elementi immateriali nella realtà sociale contemporanea, al livello internazionale (le rappresentazioni e i significati attribuiti alla realtà sono – più che in qualsiasi altro passato – capaci di modificare la realtà stessa e di produrre effetti reali: dalla “notizia” dell'insicurezza che produce insicurezza, alle voci nel mercato finanziario che ne compromettono il funzionamento;
- l'aumento delle informazioni disponibili e la diminuzione del loro costo, grazie in primo luogo alla diffusione delle ITC, che paradossalmente produce una maggiore necessità di esercitare il discernimento, la gerarchizzazione e la scelta, cioè di utilizzare la conoscenza, intesa come attività umana di attribuzione di significato alle informazioni stesse (e questa conoscenza ha un costo che è proporzionalmente inverso a quello dell'informazione);
- l'emergere di paradossi circa la conoscenza: non soltanto la conoscenza disponibile e apparentemente “utile” non sempre lo è davvero, ma soprattutto, quasi mai si riesce a tradurre effettivamente la conoscenza tacita in conoscenza esplicita (ciò comporta tra l'altro il fatto che archivi e repertori rischiano di essere inutili se non c'è un attore in grado di renderli significanti);
- infine il fatto, più evidente che in passato anche grazie al fatto che numerose nuove applicazioni della scienza e della tecnologia generano discussioni etiche e politiche, che la conoscenza e la stessa informazione hanno una natura sociale e non si incarnano in “innovazioni” se non quando sono oggetto di un processo di creazione di significati, norme, rappresentazioni condivise. Vale a dire, se non è oggetto di un processo di socializzazione (che può assumere anche l'aspetto della professionalizzazione: cioè della nascita e dello sviluppo di una identità professionale che è portatrice di valori, finalità, saperi, rappresentazioni del mondo, norme di comportamento, e così via, e che si materializza in un gruppo umano).
Questi elementi rendono indispensabile alle imprese (ma anche alle organizzazioni non profit e alle amministrazioni pubbliche) di ridefinire almeno parzialmente la propria identità e la propria modalità di funzionamento.
Piuttosto che dei semplici sistemi di organizzazione e gestione delle risorse rispetto a uno scopo (là dove l'imprenditore poteva sembrare l'attore che riusciva a organizzare insieme capitale, lavoro e tecnica) le imprese sono di fatto divenute dei motori di generazione e utilizzazione di conoscenza. Il problema è che spesso non ne sono consapevoli, o sono consapevoli di una sola dimensione del complesso mondo delle conoscenze: quella dell'informazione.
Il secondo insieme di osservazioni riguarda i vantaggi che può produrre l'adozione di un approccio all'esercizio e alla gestione della conoscenza. Una ricerca condotta due anni fa da Laboratorio di scienze della cittadinanza (www.scienzecittadinanza.org/public/RAKMLezioniapprese.pdf ) ha permesso di registrare i seguenti effetti:
- un aumento della sintonia con la realtà esterna (in particolare, con quella realtà complessa, che potrebbe essere definita società della conoscenza, che prevede nuovi ruoli e nuove modalità di funzionamento per le imprese e le organizzazioni);
- il conseguimento di alcuni specifici vantaggi, relativi alla qualità dei servizi e dell'azione, al miglioramento delle procedure interne, alla costruzione di clima caratterizzato dal rafforzamento della fiducia tra i soggetti coinvolti, alla capacità di individuare i fattori di rischio, alla trasparenza interna, alla gestione dei processi di cambiamento, all'identificazione di nuove opportunità, alla gestione delle partnership;
- la generazione di alcuni vantaggi per gli individui coinvolti e la loro attività professionale, in particolare per quanto riguarda la determinazione dell'identità professionale, la gestione dei rapporti con l'organizzazione, e più in generale i processi di professionalizzazione (cfr. quanto si è detto sopra sulla socializzazione della scienza e della tecnologia).
Il terzo insieme di osservazioni riguarda le condizioni di “applicabilità”. Spesso l'introduzione di misure di gestione della conoscenza è considerata difficile o impossibile. Non sembrerebbe così a partire dalla ricerca che ho citato sopra. Sembrerebbe invece invece possibile trarre alcune indicazioni circa i fattori che possono facilitare o sostenere la “gestione della conoscenza”.
- Il primo è senza dubbio l'esistenza di quello che potrebbe essere definito un movimento per la gestione della conoscenza. Questo potrebbe essere individuato a due livelli: uno – caratterizzato da una maggiore consapevolezza – rappresentato dalle decine o centinaia di professionisti del KM che partecipano a reti al livello nazionale e internazionale, l'altro – meno consapevole, ma non meno rilevante – si incarna nell'uso diffuso degli strumenti elettronici di condivisione della conoscenza e dell'informazione (dai blog, alle reti).
- Il secondo è costituito dalla possibilità di determinare un insieme di fattori di ostacolo da rimuovere, come, per esempio: l'autoreferenzialità delle organizzazioni, la mancanza di consapevolezza circa il proprio patrimonio di conoscenze, l'orientamento a riconoscere il proprio valore aggiunto in modo riduzionistico (per esempio nel fatturato o nel reddito generato), la tendenza a risolvere i problemi organizzativi attraverso l'intensificazione del lavoro, l'orientamento a non considerare le differenti dimensioni della professionalità dei lavoratori, la presenza di conflitti “non mediati” e di livelli bassi di fiducia, la mancata tematizzazione del tema della qualità, l'orientamento ad utilizzare forme di gestione fondate unicamente sulla gerarchia e la formalità o – al contrario – sull'informalità e sull'occultamento delle gerarchie; la rappresentazione dei problemi soltanto in termini di emergenza;
- il terzo è costituito dalla possibilità di identificare alcuni fattori di facilitazione che possono essere per così dire “amplificati”, come – per esempio: il contatto con esperienze di successo e best practices; l'interesse della leadership; l'orientamento a valorizzare le risorse umane disponibili; la sensibilità al tema della conoscenza; l'esistenza di condizioni di crisi che rendono evidente la necessità di nuove soluzioni; l'orientamento a identificare soluzioni strutturali, piuttosto che a lasciare la responsabilità della soluzione dei problemi agli individui; la consapevolezza del fatto che l'organizzazione non è in grado di valorizzare tutta la sua esperienza, la presenza di processi di mutamento organizzativo;
- il quarto infine consiste nella possibilità di adottare alcune specifiche modalità di formazione, quali un'analisi dei fabbisogni formativi che non si limiti all'identificazione dei gap di competenze e capacità; il riferimento a “pacchetti” di principi e strumenti teorici e metodologici che siano fondati su un approccio multidimensionale alla conoscenza e sul superamento delle “soluzioni tecnologiche” monodimensionali; l'effettiva considerazione nei processi di formazione della dimensione collettiva della conoscenza, attraverso il sostegno alla creazione o alla partecipazione a network.
E' stata un'occasione per riprendere una riflessione sul knowledge management che andasse al di là delle mode e degli stereotipi, che in Italia si concretizzano soprattutto in tre diffuse rappresentazioni: quella circa il fatto che il Knowledge Management si riduca a un insieme di tecnologie per l'archiviazione e il recupero delle informazioni; quella relativa al fatto che esso sia utile e sia applicabile soltanto alle grandi imprese o alle grandi organizzazioni pubbliche e quella relativa al fatto che la sua applicazione richiede grandi investimenti, sia di tempo, sia di risorse finanziarie.
Una riflessione che cerchi di superare questi stereotipi può essere articolata su tre insiemi di osservazioni.
Il primo riguarda le ragioni del knowledge management. Ce ne sono molte, ma probabilmente basta ricordarne qualcuna:
- la crescita della rilevanza degli elementi immateriali nella realtà sociale contemporanea, al livello internazionale (le rappresentazioni e i significati attribuiti alla realtà sono – più che in qualsiasi altro passato – capaci di modificare la realtà stessa e di produrre effetti reali: dalla “notizia” dell'insicurezza che produce insicurezza, alle voci nel mercato finanziario che ne compromettono il funzionamento;
- l'aumento delle informazioni disponibili e la diminuzione del loro costo, grazie in primo luogo alla diffusione delle ITC, che paradossalmente produce una maggiore necessità di esercitare il discernimento, la gerarchizzazione e la scelta, cioè di utilizzare la conoscenza, intesa come attività umana di attribuzione di significato alle informazioni stesse (e questa conoscenza ha un costo che è proporzionalmente inverso a quello dell'informazione);
- l'emergere di paradossi circa la conoscenza: non soltanto la conoscenza disponibile e apparentemente “utile” non sempre lo è davvero, ma soprattutto, quasi mai si riesce a tradurre effettivamente la conoscenza tacita in conoscenza esplicita (ciò comporta tra l'altro il fatto che archivi e repertori rischiano di essere inutili se non c'è un attore in grado di renderli significanti);
- infine il fatto, più evidente che in passato anche grazie al fatto che numerose nuove applicazioni della scienza e della tecnologia generano discussioni etiche e politiche, che la conoscenza e la stessa informazione hanno una natura sociale e non si incarnano in “innovazioni” se non quando sono oggetto di un processo di creazione di significati, norme, rappresentazioni condivise. Vale a dire, se non è oggetto di un processo di socializzazione (che può assumere anche l'aspetto della professionalizzazione: cioè della nascita e dello sviluppo di una identità professionale che è portatrice di valori, finalità, saperi, rappresentazioni del mondo, norme di comportamento, e così via, e che si materializza in un gruppo umano).
Questi elementi rendono indispensabile alle imprese (ma anche alle organizzazioni non profit e alle amministrazioni pubbliche) di ridefinire almeno parzialmente la propria identità e la propria modalità di funzionamento.
Piuttosto che dei semplici sistemi di organizzazione e gestione delle risorse rispetto a uno scopo (là dove l'imprenditore poteva sembrare l'attore che riusciva a organizzare insieme capitale, lavoro e tecnica) le imprese sono di fatto divenute dei motori di generazione e utilizzazione di conoscenza. Il problema è che spesso non ne sono consapevoli, o sono consapevoli di una sola dimensione del complesso mondo delle conoscenze: quella dell'informazione.
Il secondo insieme di osservazioni riguarda i vantaggi che può produrre l'adozione di un approccio all'esercizio e alla gestione della conoscenza. Una ricerca condotta due anni fa da Laboratorio di scienze della cittadinanza (www.scienzecittadinanza.org/public/RAKMLezioniapprese.pdf ) ha permesso di registrare i seguenti effetti:
- un aumento della sintonia con la realtà esterna (in particolare, con quella realtà complessa, che potrebbe essere definita società della conoscenza, che prevede nuovi ruoli e nuove modalità di funzionamento per le imprese e le organizzazioni);
- il conseguimento di alcuni specifici vantaggi, relativi alla qualità dei servizi e dell'azione, al miglioramento delle procedure interne, alla costruzione di clima caratterizzato dal rafforzamento della fiducia tra i soggetti coinvolti, alla capacità di individuare i fattori di rischio, alla trasparenza interna, alla gestione dei processi di cambiamento, all'identificazione di nuove opportunità, alla gestione delle partnership;
- la generazione di alcuni vantaggi per gli individui coinvolti e la loro attività professionale, in particolare per quanto riguarda la determinazione dell'identità professionale, la gestione dei rapporti con l'organizzazione, e più in generale i processi di professionalizzazione (cfr. quanto si è detto sopra sulla socializzazione della scienza e della tecnologia).
Il terzo insieme di osservazioni riguarda le condizioni di “applicabilità”. Spesso l'introduzione di misure di gestione della conoscenza è considerata difficile o impossibile. Non sembrerebbe così a partire dalla ricerca che ho citato sopra. Sembrerebbe invece invece possibile trarre alcune indicazioni circa i fattori che possono facilitare o sostenere la “gestione della conoscenza”.
- Il primo è senza dubbio l'esistenza di quello che potrebbe essere definito un movimento per la gestione della conoscenza. Questo potrebbe essere individuato a due livelli: uno – caratterizzato da una maggiore consapevolezza – rappresentato dalle decine o centinaia di professionisti del KM che partecipano a reti al livello nazionale e internazionale, l'altro – meno consapevole, ma non meno rilevante – si incarna nell'uso diffuso degli strumenti elettronici di condivisione della conoscenza e dell'informazione (dai blog, alle reti).
- Il secondo è costituito dalla possibilità di determinare un insieme di fattori di ostacolo da rimuovere, come, per esempio: l'autoreferenzialità delle organizzazioni, la mancanza di consapevolezza circa il proprio patrimonio di conoscenze, l'orientamento a riconoscere il proprio valore aggiunto in modo riduzionistico (per esempio nel fatturato o nel reddito generato), la tendenza a risolvere i problemi organizzativi attraverso l'intensificazione del lavoro, l'orientamento a non considerare le differenti dimensioni della professionalità dei lavoratori, la presenza di conflitti “non mediati” e di livelli bassi di fiducia, la mancata tematizzazione del tema della qualità, l'orientamento ad utilizzare forme di gestione fondate unicamente sulla gerarchia e la formalità o – al contrario – sull'informalità e sull'occultamento delle gerarchie; la rappresentazione dei problemi soltanto in termini di emergenza;
- il terzo è costituito dalla possibilità di identificare alcuni fattori di facilitazione che possono essere per così dire “amplificati”, come – per esempio: il contatto con esperienze di successo e best practices; l'interesse della leadership; l'orientamento a valorizzare le risorse umane disponibili; la sensibilità al tema della conoscenza; l'esistenza di condizioni di crisi che rendono evidente la necessità di nuove soluzioni; l'orientamento a identificare soluzioni strutturali, piuttosto che a lasciare la responsabilità della soluzione dei problemi agli individui; la consapevolezza del fatto che l'organizzazione non è in grado di valorizzare tutta la sua esperienza, la presenza di processi di mutamento organizzativo;
- il quarto infine consiste nella possibilità di adottare alcune specifiche modalità di formazione, quali un'analisi dei fabbisogni formativi che non si limiti all'identificazione dei gap di competenze e capacità; il riferimento a “pacchetti” di principi e strumenti teorici e metodologici che siano fondati su un approccio multidimensionale alla conoscenza e sul superamento delle “soluzioni tecnologiche” monodimensionali; l'effettiva considerazione nei processi di formazione della dimensione collettiva della conoscenza, attraverso il sostegno alla creazione o alla partecipazione a network.
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sabato 17 maggio 2008
Fannulloni e nullafacenti. La PA e il settore privato
Qualche giorno fa, con la nomina del nuovo ministro della funzione pubblica, è stata riavviata la polemica sulla presenza di fannulloni, nullafacenti e assenteisti nelle amministrazioni pubbliche italiane, nonché sulla opportunità e la necessità di licenziarli per consentire alla PA di svolgere adeguatamente il suo ruolo. Secondo il ministro (ma non soltanto per lui) nella PA sono presenti tassi di assenteismo doppi rispetto al privato e l'unico ragione per cui essa, nonostante questo, ancora non sia “fallita” è che non è in condizione di concorrenza con il privato. Oltre al licenziamento dei fannulloni, quindi, una seconda prescrizione per guarire i problema di una PA ammalata è la concorrenza. C'è anche una terza ricetta: l'eliminazione della carta e la digitalizzazione, aumentando la trasparenza.
Tre soluzioni con cui, sulla carta, tutti sono da molto tempo d'accordo: è dagli anni '80 che in tutto il mondo si è proposto l'approccio del New Public Management che tende ad inserire nelle amministrazioni pubbliche principi di gestione tratti dall'esperienza del settore privato e principi di mercato e di concorrenza; è da almeno un decennio che si annuncia l'introduzione delle tecnologie dell'informazione, e – forse in Italia più che altrove - è da anni che si parla di meritocrazia. Tuttavia, anche se molte cose sono cambiate, le questioni restano e le tre vie indicate dal ministro sono state percorse con scarsa efficacia.
Forse allora, si dovrebbe pensare che i “problemi” reali e le vere soluzioni siano altrove (per esempio, in quello che il Ministro Brunetta considera un mistero o una stranezza dovuta all'amor proprio di alcuni individui, cioè il fatto che nonostante i nullafacenti le PA sono piene di persone di grande qualità e che svolgono il loro lavoro con dedizione).
Prima di cercare di comprendere le ragioni di questo mistero, si dovrebbe però riflettere su un fatto molto semplice: ci sono differenze non eliminabili tra il settore privato e l'amministrazione pubblica che fanno sì che trasferimenti non mediati di tecnologie, approcci e strumenti di gestione non abbiano successo e che rendono l'idea della concorrenza nel migliore dei casi, nel peggiore nociva. Non è un caso che nei paesi in cui il “New Public Management” è stato introdotto con maggiore forza (e con maggiore efficacia) – come il Regno Unito, l'Australia, il Canada e la Nuova Zelanda - non se ne parli più e si stiano cercando correttivi per riparare i danni che un eccessivo riferimento al mercato e al settore privato hanno provocato.
Una prima differenza riguarda la natura e lo scopo della pubblica amministrazione: essa non deve soltanto prestare servizi, quanto soprattutto deve garantire l'esercizio dei diritti dei cittadini e il governo della realtà. Questo vuol dire, che essa deve soddisfare esigenze che non possono essere considerate agevolmente nella concorrenza con il settore privato (per esempio, quelle di “innovazione” e qualità sociale: non è un caso che l'introduzione del sistema dei “vaucher formativi” in paesi tanto diversi quanto il Canada, l'Australia e il Brasile abbia avuto come primo risultato una riduzione dell'innovazione nella formazione).
Una seconda differenza riguarda i soggetti coinvolti. Nonostante il fatto che anche per le imprese si sia parlato di una pluralità di stakeholders, che comprendono non soltanto gli imprenditori stessi, ma anche lavoratori, fornitori, clienti, ecc. (paradossalmente, in questo caso è il settore privato che, con successo, ha assunto elementi provenienti dall'esperienza del settore pubblico), per le pubbliche amministrazione questi soggetti sono in maggior numero, maggiormente diversificati e – soprattutto – con ruoli che non sempre sono semplici da distinguere: i cittadini non sono soltanto utenti o clienti dei servizi, essi ne sono i “proprietari” (e che cosa sono i funzionari? e i politici, ai diversi livelli? e così via..). Inoltre, mentre in un'impresa gli interessi dei soggetti coinvolti tendono a convergere (o a divergere nel caso di conflitti, ma comunque devono fare i conti con quelli di un soggetto più o meno definito: l'imprenditore), nelle PA gli interessi sono assai diversificati e rispondo spesso a molti e diversi principi di legittimità (sociale e culturale, oltre che giuridica).
Un terzo elemento è costituito dallo stesso oggetto dell'attività nella PA. Anche assumendo un punto di vista molto astratto e tendenzialmente riduzionista, si tratta almeno della prestazione di servizi, della garanzia dell'esercizio dei diritti, del governo della realtà. Tre oggetti assai poco materiali, rispetto ai quali esistono diverse prospettive e diversi interessi. Questo non vuol dire che non sia possibile valutarne il conseguimento (come richiederebbe un sistema meritocratico), vuol dire però che farlo non è semplice come guardare il bilancio di un'impresa o la corretta esecuzione di un progetto industriale e che, soprattutto, non è sufficiente definire dall'alto qualche standard (a questo proposito vale la pena di ricordare l'esperienza delle “carte dei servizi”: in alcuni casi esse sono semplici fotografie della realtà attuale, in altre contengono obiettivi astratti, quasi mai soddisfano gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nell'uso dei servizi stessi).
Queste sono soltanto le prime e più evidenti differenze, via via che si scende nel concreto ne emergono molte altre (e se si vuole fare sul serio è necessario: uno dei problemi centrali dell'attuazione delle riforme nella PA italiana è stata la difficoltà del conseguire livelli adeguati di concretezza).
Tre soluzioni con cui, sulla carta, tutti sono da molto tempo d'accordo: è dagli anni '80 che in tutto il mondo si è proposto l'approccio del New Public Management che tende ad inserire nelle amministrazioni pubbliche principi di gestione tratti dall'esperienza del settore privato e principi di mercato e di concorrenza; è da almeno un decennio che si annuncia l'introduzione delle tecnologie dell'informazione, e – forse in Italia più che altrove - è da anni che si parla di meritocrazia. Tuttavia, anche se molte cose sono cambiate, le questioni restano e le tre vie indicate dal ministro sono state percorse con scarsa efficacia.
Forse allora, si dovrebbe pensare che i “problemi” reali e le vere soluzioni siano altrove (per esempio, in quello che il Ministro Brunetta considera un mistero o una stranezza dovuta all'amor proprio di alcuni individui, cioè il fatto che nonostante i nullafacenti le PA sono piene di persone di grande qualità e che svolgono il loro lavoro con dedizione).
Prima di cercare di comprendere le ragioni di questo mistero, si dovrebbe però riflettere su un fatto molto semplice: ci sono differenze non eliminabili tra il settore privato e l'amministrazione pubblica che fanno sì che trasferimenti non mediati di tecnologie, approcci e strumenti di gestione non abbiano successo e che rendono l'idea della concorrenza nel migliore dei casi, nel peggiore nociva. Non è un caso che nei paesi in cui il “New Public Management” è stato introdotto con maggiore forza (e con maggiore efficacia) – come il Regno Unito, l'Australia, il Canada e la Nuova Zelanda - non se ne parli più e si stiano cercando correttivi per riparare i danni che un eccessivo riferimento al mercato e al settore privato hanno provocato.
Una prima differenza riguarda la natura e lo scopo della pubblica amministrazione: essa non deve soltanto prestare servizi, quanto soprattutto deve garantire l'esercizio dei diritti dei cittadini e il governo della realtà. Questo vuol dire, che essa deve soddisfare esigenze che non possono essere considerate agevolmente nella concorrenza con il settore privato (per esempio, quelle di “innovazione” e qualità sociale: non è un caso che l'introduzione del sistema dei “vaucher formativi” in paesi tanto diversi quanto il Canada, l'Australia e il Brasile abbia avuto come primo risultato una riduzione dell'innovazione nella formazione).
Una seconda differenza riguarda i soggetti coinvolti. Nonostante il fatto che anche per le imprese si sia parlato di una pluralità di stakeholders, che comprendono non soltanto gli imprenditori stessi, ma anche lavoratori, fornitori, clienti, ecc. (paradossalmente, in questo caso è il settore privato che, con successo, ha assunto elementi provenienti dall'esperienza del settore pubblico), per le pubbliche amministrazione questi soggetti sono in maggior numero, maggiormente diversificati e – soprattutto – con ruoli che non sempre sono semplici da distinguere: i cittadini non sono soltanto utenti o clienti dei servizi, essi ne sono i “proprietari” (e che cosa sono i funzionari? e i politici, ai diversi livelli? e così via..). Inoltre, mentre in un'impresa gli interessi dei soggetti coinvolti tendono a convergere (o a divergere nel caso di conflitti, ma comunque devono fare i conti con quelli di un soggetto più o meno definito: l'imprenditore), nelle PA gli interessi sono assai diversificati e rispondo spesso a molti e diversi principi di legittimità (sociale e culturale, oltre che giuridica).
Un terzo elemento è costituito dallo stesso oggetto dell'attività nella PA. Anche assumendo un punto di vista molto astratto e tendenzialmente riduzionista, si tratta almeno della prestazione di servizi, della garanzia dell'esercizio dei diritti, del governo della realtà. Tre oggetti assai poco materiali, rispetto ai quali esistono diverse prospettive e diversi interessi. Questo non vuol dire che non sia possibile valutarne il conseguimento (come richiederebbe un sistema meritocratico), vuol dire però che farlo non è semplice come guardare il bilancio di un'impresa o la corretta esecuzione di un progetto industriale e che, soprattutto, non è sufficiente definire dall'alto qualche standard (a questo proposito vale la pena di ricordare l'esperienza delle “carte dei servizi”: in alcuni casi esse sono semplici fotografie della realtà attuale, in altre contengono obiettivi astratti, quasi mai soddisfano gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nell'uso dei servizi stessi).
Queste sono soltanto le prime e più evidenti differenze, via via che si scende nel concreto ne emergono molte altre (e se si vuole fare sul serio è necessario: uno dei problemi centrali dell'attuazione delle riforme nella PA italiana è stata la difficoltà del conseguire livelli adeguati di concretezza).
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venerdì 16 maggio 2008
L'Italia s'è desta. Pogrom e sottosviluppo
Da alcuni giorni l'Italia s'è desta ed è diventata lo scenario di pogrom, di quelli classici - con l'attiva partecipazione della popolazione organizzata da un soggetto collettivo più o meno occulto - ad alcuni in parte nuovi, gestiti e organizzati dalle autorità pubbliche, per gestire il consenso della popolazione.
Non è un buon segno.
L'Italia è anche attraversata in questo stesso periodo da altri fenomeni: crisi della rappresentanza e della politica, crisi delle capacità economica, crisi del sistema educativo e di socializzazione dei giovani, stasi della ricerca scientifica e tecnologica, e così via.
In sostanza, una crisi dello sviluppo, assecondata e alimentata dalla politica, che rinuncia a osservare la "realtà" e rinuncia a politiche di sviluppo - che nel mondo attuale vuol dire anche politiche che sostengano la pluralità culturale, la produzione scientifica e le sue applicazioni, l'apertura delle economie (cfr. anche la passione internazionale intorno alle tesi di Florida).
Lo iato tra la politica e la realtà e l'allontanamento delle persone dalla realtà effettiva per cui vivono per ritirarsi in un mondo virtuale popolato di mostri (come quello delle fiabe infantili e dei miti delle origini) sono stati oggetto fino ad ora di ricerche piuttosto "tradizionali", che hanno guardato alla dimensione istituzionale e della rappesentanza, a quella delle organizzazioni, a quella economica e persino - in qualche caso - a un ritorno a tesi vecchie come quelle dell'utilitarismo.
Forse, invece, è ora di pensare a nuovi programmi di ricerca. Si tratta, per esempio, di capire dove hanno origine e come funzionano le emozioni, al livello collettivo e al livello individuale; come possono convivere orientamenti diversi e contraddittori; come la "pluralità" di fatto che caratterizza le nostre identità coesiste con le paure dell'alterità; come in un mondo sempre più globalizzato e apparentemente uniforme le alterità si alimentano.
Non è un buon segno.
L'Italia è anche attraversata in questo stesso periodo da altri fenomeni: crisi della rappresentanza e della politica, crisi delle capacità economica, crisi del sistema educativo e di socializzazione dei giovani, stasi della ricerca scientifica e tecnologica, e così via.
In sostanza, una crisi dello sviluppo, assecondata e alimentata dalla politica, che rinuncia a osservare la "realtà" e rinuncia a politiche di sviluppo - che nel mondo attuale vuol dire anche politiche che sostengano la pluralità culturale, la produzione scientifica e le sue applicazioni, l'apertura delle economie (cfr. anche la passione internazionale intorno alle tesi di Florida).
Lo iato tra la politica e la realtà e l'allontanamento delle persone dalla realtà effettiva per cui vivono per ritirarsi in un mondo virtuale popolato di mostri (come quello delle fiabe infantili e dei miti delle origini) sono stati oggetto fino ad ora di ricerche piuttosto "tradizionali", che hanno guardato alla dimensione istituzionale e della rappesentanza, a quella delle organizzazioni, a quella economica e persino - in qualche caso - a un ritorno a tesi vecchie come quelle dell'utilitarismo.
Forse, invece, è ora di pensare a nuovi programmi di ricerca. Si tratta, per esempio, di capire dove hanno origine e come funzionano le emozioni, al livello collettivo e al livello individuale; come possono convivere orientamenti diversi e contraddittori; come la "pluralità" di fatto che caratterizza le nostre identità coesiste con le paure dell'alterità; come in un mondo sempre più globalizzato e apparentemente uniforme le alterità si alimentano.
mercoledì 14 maggio 2008
I re di Roma e i modelli urbani
Un'intervista a Vezio de Lucia in cui si discute della città di Roma e si riprendono alcune idee che negli ultimi anni sono state definite per guidare lo sviluppo delle città e gestire le aree urbane, ma che sembra siano state dimenticate: riconversione, ristrutturazione, gestione dello spazio, intensificazione, riuso, decentramento reale, città centripete e multicentriche, e così via.
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Delegificazione?
Nonostante l’Istituto superiore di statistica e le prefetture abbiano pubblicato dati che mostrano come non sia in atto un’emergenza criminalità in Italia, questa continua ad essere il tema centrale dei titoli di prima pagina.
E continua ad essere anche il tema centrale della politica, e la questione su cui si incontrano il livello nazionale e quello locale. A volte producendo anche qualche paradosso. Ecco un piccolo esempio, dal sito di Repubblica (14 maggio 2008):
“ il responsabile del Viminale ha già iniziato a lavorare, annunciando importanti novità. Nel pomeriggio di ieri aveva incontrato il sindaco di Roma, mentre oggi è stata la volta di Letizia Moratti, primo cittadino di Milano. "Con Milano - ha detto il ministro al termine dell'incontro - è stato stipulato un patto per la 'Città sicura' che prevede molte norme" (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/sicurezza-politica-3/lavoro-dl-13mag/lavoro-dl-13mag.html)
Ma non basta, al ministro della giustizia è stata attribuita una delega a definire le norme per fare della “clandestinità” un reato (cosa che potrebbe avere come conseguenze quella di rallentare molto tutte le procedure che potrebbero portare all’espulsione dei clandestini e di produrre un nuovo ambito di attività per la giustizia penale).
E la de-legificazione? Sembrava ormai riconosciuto da tutti il fatto che in Italia ci fosse un eccesso di norme. Tanto assodato da creare un apposito ministero.
E continua ad essere anche il tema centrale della politica, e la questione su cui si incontrano il livello nazionale e quello locale. A volte producendo anche qualche paradosso. Ecco un piccolo esempio, dal sito di Repubblica (14 maggio 2008):
“ il responsabile del Viminale ha già iniziato a lavorare, annunciando importanti novità. Nel pomeriggio di ieri aveva incontrato il sindaco di Roma, mentre oggi è stata la volta di Letizia Moratti, primo cittadino di Milano. "Con Milano - ha detto il ministro al termine dell'incontro - è stato stipulato un patto per la 'Città sicura' che prevede molte norme" (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/sicurezza-politica-3/lavoro-dl-13mag/lavoro-dl-13mag.html)
Ma non basta, al ministro della giustizia è stata attribuita una delega a definire le norme per fare della “clandestinità” un reato (cosa che potrebbe avere come conseguenze quella di rallentare molto tutte le procedure che potrebbero portare all’espulsione dei clandestini e di produrre un nuovo ambito di attività per la giustizia penale).
E la de-legificazione? Sembrava ormai riconosciuto da tutti il fatto che in Italia ci fosse un eccesso di norme. Tanto assodato da creare un apposito ministero.
venerdì 9 maggio 2008
Paura e sicurezza a Roma
La prefettura di Roma ha reso note le variazioni relative alla ricorrenza di alcuni reati nel primo semestre 2008, rispetto all'anno precedente:
- borseggi - 52%
- scippi - 56%
- furti - 45%
- violenze sessuali - 50%
- borseggi - 52%
- scippi - 56%
- furti - 45%
- violenze sessuali - 50%
mercoledì 7 maggio 2008
Disastri
La paura non è un fenomeno solo italiano. In questi giorni ci sono due fenomeni che hanno sollevato allarme al livello internazionale: l'emergere di una nuova crisi alimentare e il ciclone che ha colpito la Birmania. Le risposte che molti - compreso il segretario delle Nazioni Unite - tendono a dare sono soprattutto orientate a ridurre i danni presenti: aiuti di emergenza (acqua, ripari, cibo, medicine) a Myanmar e nuove derrate di cereali contro la fame crescente (ci sono infatti previsioni di un buon raccolto in Ucraina!).
Soluzioni che non rendono conto della realtà.
Ormai da molti anni (un saggio di Amartya Sen sull'argomento data ai primi anni '70) si sa che la fame non deriva dalla mancanza di cibo, ma dalla impossibilità di accedervi per cause sociali, economiche, di gestione del territorio e così via. Cause che è difficile siano rimosse dalla semplice iniezione di nuovi prodotti sul mercato internazionale o in quello degli aiuti.
E da quasi altrettanto tempo - ma definitivamente dopo lo tsunami che ha interessato l'area dell'Oceano Indiano e gli uragani Mitch e Katrina - si è ben consapevoli che la vulnerabilità a cicloni e uragani è legata soltanto in una misura limitata a fattori naturali. Piuttosto, essa è generata e amplificata da processi e eventi sociali.
Non solo, ma lì dove le società civili sono deboli i disastri naturali tendono non soltanto a comportare più danni fisici, economici e sanitari, ma anche a favorire un ulteriore indebolimento dei legami sociali e una crisi delle stesse capacità di attivazione e di risposta sociale. Per evitare che questo accada nella già debole Myanmar forse serve anche qualcos'altro oltre a cibo, tende, acqua potabile e medicine.
Soluzioni che non rendono conto della realtà.
Ormai da molti anni (un saggio di Amartya Sen sull'argomento data ai primi anni '70) si sa che la fame non deriva dalla mancanza di cibo, ma dalla impossibilità di accedervi per cause sociali, economiche, di gestione del territorio e così via. Cause che è difficile siano rimosse dalla semplice iniezione di nuovi prodotti sul mercato internazionale o in quello degli aiuti.
E da quasi altrettanto tempo - ma definitivamente dopo lo tsunami che ha interessato l'area dell'Oceano Indiano e gli uragani Mitch e Katrina - si è ben consapevoli che la vulnerabilità a cicloni e uragani è legata soltanto in una misura limitata a fattori naturali. Piuttosto, essa è generata e amplificata da processi e eventi sociali.
Non solo, ma lì dove le società civili sono deboli i disastri naturali tendono non soltanto a comportare più danni fisici, economici e sanitari, ma anche a favorire un ulteriore indebolimento dei legami sociali e una crisi delle stesse capacità di attivazione e di risposta sociale. Per evitare che questo accada nella già debole Myanmar forse serve anche qualcos'altro oltre a cibo, tende, acqua potabile e medicine.
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La paura!
L'Istat: "Gli omicidi sono in caloma in Italia cresce la paura". Stamattina a Roma è stato presentato il rapporto dell'istituto di statistica In otto anni il numero di delitti è diminuito: dal 13,1 al 10,3 per milione di abitanti. La criminalità continua a preoccupare più della metà degli italiani (il 58,7%). Le altre fonti di angoscia sono la disoccupazione (70,1%) e la povertà (29,4%)
Forse allora la ragione della paura e del senso di insicurezza non è nella mancanza di sicurezza!
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mercoledì 30 aprile 2008
Meccanismi di trasformazione
Tra qualche giorno si terrà il “Forum PA ‘08”. Una grande fiera della pubblica amministrazione, che da alcuni anni – bene o male – funziona come un palcoscenico sul quale sfilano le iniziative e le idee legate alla riforma dell’amministrazione in Italia.
Tra le iniziative previste c’è l’apertura di una sezione espositiva dedicata al “Project Management”, che viene presentata così: “Tutte le organizzazioni, pubbliche o private, oltre allo svolgimento delle normali attività di routine sono sempre più coinvolte nella gestione di specifici “progetti”, intendendo per progetto uno impegno temporaneo teso al raggiungimento di specifici obiettivi e in presenza di vincoli, sempre crescenti, di tempo, costi e qualità; e questo soprattutto in un’ottica di cambiamento e di innovazione, considerando i progetti come un insieme di processi di buona pianificazione e controllo di una impresa che permetta ad una organizzazione di realizzare nuovo prodotto/servizio o, più in generale, di produrre valore per i propri utenti/clienti finali” (http://expo.forumpa.it/page/35522/project-management-nuovi-modelli-di-partnership-pubblico-privato-e-forum-pa-2008 )
Si tratta di una definizione in cui è possibile riconoscere le iniziative che da almeno 20 anni sono realizzate sia in Italia, sia in altri paesi. Quasi ovunque, infatti, cercando meccanismi per promuovere un migliore funzionamento e una maggiore trasparenza delle pubbliche amministrazioni, sono state introdotte nuove modalità di azione che avevano alla base un’idea mutuata dall’ingegneria e dall’architettura: quella di un’opera che ha un inizio e un termine, un obiettivo definito, risorse determinate, utenti finali e così via.
Forse, però, è proprio a una definizione come quella riportata sopra che può essere addebitato il fatto che ancora, nonostante gli sforzi e gli investimenti, nelle amministrazioni pubbliche si osservino spesso fenomeni, come – per esempio - l’emergere di effetti e risultati diversi da quelli attesi, la carente identificazione, formulazione e implementazione dei progetti stessi e, più in generale, il loro impatto limitato sul funzionamento della PA nel suo complesso (con l’effetto perverso di una perdita di risorse, di efficienza e di efficacia).
Una definizione come quella citata, infatti, tende a mantenere i “progetti” come elementi estranei alle organizzazioni e alle loro normali attività (che - per le amministrazioni pubbliche – si possono spesso identificare con l’offerta continua e quotidiana di servizi, con la gestione di conoscenze e informazioni e con la gestione di processi in atto nella società che le circonda) e, in questo modo, tende a neutralizzarli e a renderli “fattori di disturbo” nella vita dell’amministrazione o, nei casi migliori, il modo attraverso il quale funzionari curiosi e intelligenti sperimentano idee e soluzioni, con rischi e con impatti limitati.
Prendere sul serio i progetti e il project management, così da influire effettivamente sul funzionamento della PA, non può invece prescindere da una loro reale e completa integrazione nell’attività continua e quotidiana dell’amministrazione stessa, come una modalità per il conseguimento dei suoi obiettivi. Questo appare però legato ad alcune condizioni.
La prima è l’abbandono dell’idea dei progetti come “impegni temporanei” volti al conseguimento di specifici obiettivi, in favore di un riconoscimento della dimensione processuale che è propria di tutte le attività della pubblica amministrazione ed è ineliminabile.
La seconda è il superamento della concezione del progetto come semplice componente di un meccanismo di finanziamento (si elaborano progetti perché sono un modo per accedere a nuove risorse oltre quelle dei budget ordinari).
La terza, infine, è l’accettazione del fatto che i progetti non influiscano soltanto su singoli segmenti dell’amministrazione coinvolta, ma che entrino ad incidere su tutti gli aspetti dell’amministrazione stessa.
Non si tratta di una grande novità: gli schemi e i formulari che di volta in volta le diverse organizzazioni internazionali definiscono e propongono richiedono di determinare non soltanto gli obiettivi, le azioni proposte, le risorse impiegate e gli indicatori del conseguimento dei risultati, ma anche le strutture organizzative, le partnership, i meccanismi decisionali, i rischi connessi all’attività proposta, le condizioni per il suo funzionamento e le alternative, e così via
E’ abbastanza evidente, quindi, che, quasi per sua natura, un progetto per essere di “buona qualità” tenda a modificare tutto ciò che entra in contatto con lui e a costituire un motore o un meccanismo di mutamento, che non investe soltanto alcuni aspetti di un’attività o di un’organizzazzione, ma la pervade nella sua stessa essenza.
Esso, infatti, comporta la determinazione di obiettivi condivisi, la messa in opera di partnership efficaci, il coinvolgimento dei diversi attori coinvolti nei servizi, la valorizzazione delle conoscenze e delle capacità, la ridefinizione di processi e procedure, cioè, in sostanza, di avviare un processo di costruzione di un nuovo sistema di significati, norme, rappresentazioni, relazioni, modalità di azione e comportamento, funzionale a rendere socialmente condivise e interiorizzate le innovazioni che sono al centro dei progetti medesimi.
Questo ora avviene in pochi casi. Perché in pochi casi la determinazione dei vari elementi di un progetto supera la soglia della mera retorica. Prima si definisce che cosa si vuole fare, sulla base delle risorse disponibili, e poi si redige un documento volto ad ottenere tali risorse.
Tra le iniziative previste c’è l’apertura di una sezione espositiva dedicata al “Project Management”, che viene presentata così: “Tutte le organizzazioni, pubbliche o private, oltre allo svolgimento delle normali attività di routine sono sempre più coinvolte nella gestione di specifici “progetti”, intendendo per progetto uno impegno temporaneo teso al raggiungimento di specifici obiettivi e in presenza di vincoli, sempre crescenti, di tempo, costi e qualità; e questo soprattutto in un’ottica di cambiamento e di innovazione, considerando i progetti come un insieme di processi di buona pianificazione e controllo di una impresa che permetta ad una organizzazione di realizzare nuovo prodotto/servizio o, più in generale, di produrre valore per i propri utenti/clienti finali” (http://expo.forumpa.it/page/35522/project-management-nuovi-modelli-di-partnership-pubblico-privato-e-forum-pa-2008 )
Si tratta di una definizione in cui è possibile riconoscere le iniziative che da almeno 20 anni sono realizzate sia in Italia, sia in altri paesi. Quasi ovunque, infatti, cercando meccanismi per promuovere un migliore funzionamento e una maggiore trasparenza delle pubbliche amministrazioni, sono state introdotte nuove modalità di azione che avevano alla base un’idea mutuata dall’ingegneria e dall’architettura: quella di un’opera che ha un inizio e un termine, un obiettivo definito, risorse determinate, utenti finali e così via.
Forse, però, è proprio a una definizione come quella riportata sopra che può essere addebitato il fatto che ancora, nonostante gli sforzi e gli investimenti, nelle amministrazioni pubbliche si osservino spesso fenomeni, come – per esempio - l’emergere di effetti e risultati diversi da quelli attesi, la carente identificazione, formulazione e implementazione dei progetti stessi e, più in generale, il loro impatto limitato sul funzionamento della PA nel suo complesso (con l’effetto perverso di una perdita di risorse, di efficienza e di efficacia).
Una definizione come quella citata, infatti, tende a mantenere i “progetti” come elementi estranei alle organizzazioni e alle loro normali attività (che - per le amministrazioni pubbliche – si possono spesso identificare con l’offerta continua e quotidiana di servizi, con la gestione di conoscenze e informazioni e con la gestione di processi in atto nella società che le circonda) e, in questo modo, tende a neutralizzarli e a renderli “fattori di disturbo” nella vita dell’amministrazione o, nei casi migliori, il modo attraverso il quale funzionari curiosi e intelligenti sperimentano idee e soluzioni, con rischi e con impatti limitati.
Prendere sul serio i progetti e il project management, così da influire effettivamente sul funzionamento della PA, non può invece prescindere da una loro reale e completa integrazione nell’attività continua e quotidiana dell’amministrazione stessa, come una modalità per il conseguimento dei suoi obiettivi. Questo appare però legato ad alcune condizioni.
La prima è l’abbandono dell’idea dei progetti come “impegni temporanei” volti al conseguimento di specifici obiettivi, in favore di un riconoscimento della dimensione processuale che è propria di tutte le attività della pubblica amministrazione ed è ineliminabile.
La seconda è il superamento della concezione del progetto come semplice componente di un meccanismo di finanziamento (si elaborano progetti perché sono un modo per accedere a nuove risorse oltre quelle dei budget ordinari).
La terza, infine, è l’accettazione del fatto che i progetti non influiscano soltanto su singoli segmenti dell’amministrazione coinvolta, ma che entrino ad incidere su tutti gli aspetti dell’amministrazione stessa.
Non si tratta di una grande novità: gli schemi e i formulari che di volta in volta le diverse organizzazioni internazionali definiscono e propongono richiedono di determinare non soltanto gli obiettivi, le azioni proposte, le risorse impiegate e gli indicatori del conseguimento dei risultati, ma anche le strutture organizzative, le partnership, i meccanismi decisionali, i rischi connessi all’attività proposta, le condizioni per il suo funzionamento e le alternative, e così via
E’ abbastanza evidente, quindi, che, quasi per sua natura, un progetto per essere di “buona qualità” tenda a modificare tutto ciò che entra in contatto con lui e a costituire un motore o un meccanismo di mutamento, che non investe soltanto alcuni aspetti di un’attività o di un’organizzazzione, ma la pervade nella sua stessa essenza.
Esso, infatti, comporta la determinazione di obiettivi condivisi, la messa in opera di partnership efficaci, il coinvolgimento dei diversi attori coinvolti nei servizi, la valorizzazione delle conoscenze e delle capacità, la ridefinizione di processi e procedure, cioè, in sostanza, di avviare un processo di costruzione di un nuovo sistema di significati, norme, rappresentazioni, relazioni, modalità di azione e comportamento, funzionale a rendere socialmente condivise e interiorizzate le innovazioni che sono al centro dei progetti medesimi.
Questo ora avviene in pochi casi. Perché in pochi casi la determinazione dei vari elementi di un progetto supera la soglia della mera retorica. Prima si definisce che cosa si vuole fare, sulla base delle risorse disponibili, e poi si redige un documento volto ad ottenere tali risorse.
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martedì 29 aprile 2008
La città e la paura
http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/politica/saluti-romani-alemanno/7.html
Questa è la nuova sicurezza della città di Roma.
Ma davvero le elezioni a Roma sono state perse dalla sinistra sulla questione della sicurezza?
Secondo le statistiche Roma era ed è una delle città più sicure d’Europa del mondo, eppure negli ultimi mesi non si è fatto altro che parlare di sicurezza, nella campagna elettorale questo è stato l’unico tema trattato e sembra che siano bastati tre delitti (mentre in altre città d’Italia ne venivano commessi altri, in alcuni casi molto più atroci) per rendere Roma una città insicura.
Ora i candidati dicono “abbiamo vinto” o “abbiamo perso” sulla sicurezza. Ma forse le cose sono in altro modo. Forse semplicemente le elezioni sono state perse per la mancanza di concretezza del governo urbano. Una mancanza di concretezza che è stata sostituita dai discorsi della sicurezza.
Il governo della città si era lasciato sfuggire di mano alcuni degli elementi che producono il maggiore allarme nelle città contemporanee, quelli del degrado fisico: strade in cattive condizioni, sporcizia, cattiva illuminazione, carente gestione dell’ambiente, trasporti problematici e stazioni ferroviarie invecchiate, e così via.
Ma la sporcizia delle strade non produce criminalità, mentre questa sicuramente è diminuita dalla diffusione di eventi pubblici, dalla animazione delle strade e da una intensa vita culturale (compresa quella prodotta dai “centri occupati”). Tutte cose abbastanza diffuse a Roma, che probabilmente hanno favorito una condizione oggettiva di sicurezza sulla quasi totalità del territorio urbano. Con due problemi però: la diffusione poco uniforme sul territorio delle iniziative di animazione (aree della città sono apparse abbandonate a se stesse) e la scarsa attenzione al fatto che queste stesse fossero percepite come elementi di una condizione di maggiore sicurezza dalla maggior parte della popolazione.
Invece, i governanti della città per primi – inseguendo quelli che della sicurezza e della restrizione delle libertà individuali hanno sempre fatto la loro bandiera – hanno iniziato a parlare di una questione insicurezza e di una questione immigrazione (peccato che la condizione di irregolarità in cui sono costretti alcuni gruppi di immigrati sia uno dei principali elementi che alimenta i comportamenti illegali).
E dai discorsi sull’insicurezza nasce la paura, che spesso genera comportamenti che aumentano una effettiva insicurezza, come - solo per fare qualche esempio - le risposte violente alle minacce orali, la segregazione di gruppi umani., la mancanza di uso di porzioni di territorio.
E forse anche la diminuzione degli elettori è almeno in parte da addebitare al prevalere delle discussioni sulla sicurezza rispetto a quelle sulla concretezza del vivere urbano.
Questa è la nuova sicurezza della città di Roma.
Ma davvero le elezioni a Roma sono state perse dalla sinistra sulla questione della sicurezza?
Secondo le statistiche Roma era ed è una delle città più sicure d’Europa del mondo, eppure negli ultimi mesi non si è fatto altro che parlare di sicurezza, nella campagna elettorale questo è stato l’unico tema trattato e sembra che siano bastati tre delitti (mentre in altre città d’Italia ne venivano commessi altri, in alcuni casi molto più atroci) per rendere Roma una città insicura.
Ora i candidati dicono “abbiamo vinto” o “abbiamo perso” sulla sicurezza. Ma forse le cose sono in altro modo. Forse semplicemente le elezioni sono state perse per la mancanza di concretezza del governo urbano. Una mancanza di concretezza che è stata sostituita dai discorsi della sicurezza.
Il governo della città si era lasciato sfuggire di mano alcuni degli elementi che producono il maggiore allarme nelle città contemporanee, quelli del degrado fisico: strade in cattive condizioni, sporcizia, cattiva illuminazione, carente gestione dell’ambiente, trasporti problematici e stazioni ferroviarie invecchiate, e così via.
Ma la sporcizia delle strade non produce criminalità, mentre questa sicuramente è diminuita dalla diffusione di eventi pubblici, dalla animazione delle strade e da una intensa vita culturale (compresa quella prodotta dai “centri occupati”). Tutte cose abbastanza diffuse a Roma, che probabilmente hanno favorito una condizione oggettiva di sicurezza sulla quasi totalità del territorio urbano. Con due problemi però: la diffusione poco uniforme sul territorio delle iniziative di animazione (aree della città sono apparse abbandonate a se stesse) e la scarsa attenzione al fatto che queste stesse fossero percepite come elementi di una condizione di maggiore sicurezza dalla maggior parte della popolazione.
Invece, i governanti della città per primi – inseguendo quelli che della sicurezza e della restrizione delle libertà individuali hanno sempre fatto la loro bandiera – hanno iniziato a parlare di una questione insicurezza e di una questione immigrazione (peccato che la condizione di irregolarità in cui sono costretti alcuni gruppi di immigrati sia uno dei principali elementi che alimenta i comportamenti illegali).
E dai discorsi sull’insicurezza nasce la paura, che spesso genera comportamenti che aumentano una effettiva insicurezza, come - solo per fare qualche esempio - le risposte violente alle minacce orali, la segregazione di gruppi umani., la mancanza di uso di porzioni di territorio.
E forse anche la diminuzione degli elettori è almeno in parte da addebitare al prevalere delle discussioni sulla sicurezza rispetto a quelle sulla concretezza del vivere urbano.
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venerdì 25 aprile 2008
Sgomberi e riqualificazione delle città
Da qualche tempo sembra che in Italia sia tornato di moda lo sgombero degli insediamenti abusivi (soprattutto di immigrati e di “nomadi”) che sorgono dentro e ai margini della città.
E’ strano, perché di sgombero nella letteratura internazionale e nelle esperienze condotte in tutto il mondo sulla riqualificazione urbana non si parla più da anni. Spesso lo si pratica, ma in silenzio.
La prima caratteristica di una politica di riqualificazione fondata sullo “sgombero” è la totale inefficacia: lo spazio che era occupato dalle baracche se non è occupato e utilizzato per qualcos’altro torna in breve ad essere occupato. E’ successo a Bologna e inizia ad accadere anche a Roma. Prima però era successo in centinaia di città del mondo.
La seconda caratteristica di una politica di questo genere è che genera nuovo degrado e radicalizza i problemi esistenti: gli occupanti irregolari del territorio assumono come un dato il fatto che prima o poi saranno sgomberati e quindi non curano il luogo in cui sono. Una politica di sgomberi implica:
- aree di territorio urbano sempre più degradate, con abitazioni sempre più fatiscenti e condizioni igieniche sempre peggiori;
- una condizione di conflitto costante tra gli abitanti degli insediamenti informali e quelli della “città formale”;
- la presenza nelle aree di insediamento di persone sempre meno “integrate” nella società circostante (persone che proprio la condizione di irregolarità e marginalità porta ad essere in modo frequente sia gli autori sia le vittime di reati);
- una condizione di insicurezza reale e percepita per tutti i soggetti coinvolti e spesso il vero e proprio abbandono di pezzi di territorio, che è oggetto di processi di stigmatizzazione.
In Brasile ci sono casi esemplari: nello stato di San Paolo il mantenimento di una politica orientata a liberare il territorio dagli insediamenti illegali si è tradotta nel fatto che le baraccopoli sono sempre rimaste tali e sono, in maniera sempre maggiore, uscite dal controllo pubblico.
La terza caratteristica di una politica fondata sugli sgomberi è che tende a violare diritti umani fondamentali. Primo tra tutti quello a un “rifugio” (che è stato sancito nel Summit delle Nazioni Unite che si è tenuto a Istanbul nel 1996, la cui dichiarazione finale è stata ratificata dall’Italia). Sono abbastanza poche le immagini pubblicate degli sgomberi di insediamenti informali: forse perché a nessuno piace di vedere gli occhi spaventati dei bambini che, insieme agli adulti, vedono la loro vita resa ancora più precaria.
Eppure negli ultimi due decenni sono state sperimentate altre soluzioni, in genere più efficaci. Quasi tutte sono fondate sul principio della regolarizzazione e della legalizzazione, . Per riportare un insediamento e i suoi abitanti nella città il primo passo è quello di riconoscerlo.
Un secondo elemento che le caratterizza è quello dell’accoglienza, ma qui si apre un altro capitolo, sulla trasformazione urbana (e degli edifici), sull’uso degli spazi e sulle grandi difficoltà degli interventi fondati sulla costruzione di case popolari.
Un terzo, è quello del discernimento: non tutti i territori sono uguali e neanche tutti gli abitanti degli insediamenti informali.
Un altro è quello della partecipazione. Anche a Roma ci sono esempi recenti: fino a qualche tempo fa il “villaggio dei pescatori” di Ostia era in condizioni peggiori di molti slum del resto del mondo, ora dopo la formazione di un comitato degli abitanti, le cose stanno cambiando in modo evidente.
Un sito su questa questione: www.cohre.org/ e uno che racconta di una esperienza. http://www.fna.org.br/seminario/pdfs/Tema(3)Palestra%20(3).pdf
E’ strano, perché di sgombero nella letteratura internazionale e nelle esperienze condotte in tutto il mondo sulla riqualificazione urbana non si parla più da anni. Spesso lo si pratica, ma in silenzio.
La prima caratteristica di una politica di riqualificazione fondata sullo “sgombero” è la totale inefficacia: lo spazio che era occupato dalle baracche se non è occupato e utilizzato per qualcos’altro torna in breve ad essere occupato. E’ successo a Bologna e inizia ad accadere anche a Roma. Prima però era successo in centinaia di città del mondo.
La seconda caratteristica di una politica di questo genere è che genera nuovo degrado e radicalizza i problemi esistenti: gli occupanti irregolari del territorio assumono come un dato il fatto che prima o poi saranno sgomberati e quindi non curano il luogo in cui sono. Una politica di sgomberi implica:
- aree di territorio urbano sempre più degradate, con abitazioni sempre più fatiscenti e condizioni igieniche sempre peggiori;
- una condizione di conflitto costante tra gli abitanti degli insediamenti informali e quelli della “città formale”;
- la presenza nelle aree di insediamento di persone sempre meno “integrate” nella società circostante (persone che proprio la condizione di irregolarità e marginalità porta ad essere in modo frequente sia gli autori sia le vittime di reati);
- una condizione di insicurezza reale e percepita per tutti i soggetti coinvolti e spesso il vero e proprio abbandono di pezzi di territorio, che è oggetto di processi di stigmatizzazione.
In Brasile ci sono casi esemplari: nello stato di San Paolo il mantenimento di una politica orientata a liberare il territorio dagli insediamenti illegali si è tradotta nel fatto che le baraccopoli sono sempre rimaste tali e sono, in maniera sempre maggiore, uscite dal controllo pubblico.
La terza caratteristica di una politica fondata sugli sgomberi è che tende a violare diritti umani fondamentali. Primo tra tutti quello a un “rifugio” (che è stato sancito nel Summit delle Nazioni Unite che si è tenuto a Istanbul nel 1996, la cui dichiarazione finale è stata ratificata dall’Italia). Sono abbastanza poche le immagini pubblicate degli sgomberi di insediamenti informali: forse perché a nessuno piace di vedere gli occhi spaventati dei bambini che, insieme agli adulti, vedono la loro vita resa ancora più precaria.
Eppure negli ultimi due decenni sono state sperimentate altre soluzioni, in genere più efficaci. Quasi tutte sono fondate sul principio della regolarizzazione e della legalizzazione, . Per riportare un insediamento e i suoi abitanti nella città il primo passo è quello di riconoscerlo.
Un secondo elemento che le caratterizza è quello dell’accoglienza, ma qui si apre un altro capitolo, sulla trasformazione urbana (e degli edifici), sull’uso degli spazi e sulle grandi difficoltà degli interventi fondati sulla costruzione di case popolari.
Un terzo, è quello del discernimento: non tutti i territori sono uguali e neanche tutti gli abitanti degli insediamenti informali.
Un altro è quello della partecipazione. Anche a Roma ci sono esempi recenti: fino a qualche tempo fa il “villaggio dei pescatori” di Ostia era in condizioni peggiori di molti slum del resto del mondo, ora dopo la formazione di un comitato degli abitanti, le cose stanno cambiando in modo evidente.
Un sito su questa questione: www.cohre.org/ e uno che racconta di una esperienza. http://www.fna.org.br/seminario/pdfs/Tema(3)Palestra%20(3).pdf
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